Il Corriere della Sera sta pubblicando “Buone Notizie”, un nuovo dorso dedicato al volontariato, alla solidarietà, alla responsabilità sociale delle imprese. Non è il primo strumento del genere, ma che il principale quotidiano italiano lanci questa sfida è un segnale importante, in un mondo della comunicazione in cui sembra ci sia posto solo per le tre “esse”: sesso, soldi, sangue. L’inserto vuol essere una piattaforma informativa per il “Terzo settore”, ma ciò che più colpisce sono le storie che raccoglie. Ne emerge un quadro sorprendente di persone che trovano energie inaspettate, partendo da uno sguardo positivo su di sé e su ciò che le circonda. Non solo, emerge un potenziale di cambiamento che, oltre i singoli, può investire e già investe le organizzazioni complesse, le imprese, i media.



Lo ha dimostrato anche un convegno svoltosi ieri presso l’Università Cattolica di Milano e dedicato alla responsabilità sociale nella comunicazione e nell’impresa. Oggi, ha spiegato Bruno Calchera, organizzatore dell’evento, tutti parlano di sviluppo sostenibile, ma pochi sanno cosa sia. C’è dunque un problema di comunicazione, di trovare gli strumenti efficaci, distinguendo i media, i target e cercando un linguaggio adeguato a ciascun contenuto. Ma c’è soprattutto da comunicare che non si tratta di un tema per persone particolarmente sensibili. Riguarda tutti. A dimostrazione di ciò, al convegno hanno portato il loro contributo personalità appartenenti mondi disparati: una banca, una fabbrica di birra, una televisione, un giornale, un sindacato, il sistema del volontariato, un parlamentare, docenti universitari, persino il presidente del Tribunale di Milano.



È stato detto che dopo la crisi recente non è più concepibile un modo di intendere il proprio lavoro, o la propria impresa, come un mondo chiuso. L’apertura all’altro, o se si vuole alla società, è parte della riuscita del proprio lavoro, anche dal punto di vista del profitto. Dalle multinazionali alle piccole organizzazioni, chi più chi meno, oggi tutti sono attenti alla Csr, Corporate Social Responsibility. Ma sbaglierebbe chi ne individuasse la spiegazione solo in una furbizia di marketing o nella cosiddetta “globalizzazione”, perché sarebbe ancora una volta rimanere dentro un recinto, quello economico, solo un po’ più vasto.



La ragione vera sta in un’idea, in alcuni tenacemente ancora viva, magari latente, confusa, solo intuita, come un barlume: non può servire a me ciò che non serve anche all’altro che mi sta accanto. Certo, non ci si può illudere. Il positivo c’è, ma è poco. E per un’impresa attenta alle conseguenze di ciò che produce, quante ce ne sono di irresponsabili? È come per le persone. Però, però: ce ne fosse anche soltanto una, si può ripartire da lì.