Sul piano tattico ha ragione Carlo Calenda, i compratori dell’Ilva — gli indiani del colosso Mittal — hanno lanciato un ultimatum al governo italiano: o entro il 9 gennaio lo scontro istituzionale sul piano ambientale di risanamento sarà tutto appianato, col ritiro della richiesta di sospensiva avanzata davanti al Tar da Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia, con il sindaco di Taranto; oppure manderanno a monte l’intervento nel gruppo, costringendolo a sospendere l’attività e inducendo il governo a spendere risorse pubbliche per salvare i redditi dei lavoratori senza lavoro.



Eppure, per quanto fosco sia questo scenario, sul piano strategico la posizione di Emiliano è convincente. L’Ilva ha inquinato e inquina: la bonifica dev’essere la prima sollecitudine e il primo impegno. E secondo il governatore, quanto promesso da Mittal non basta né nei tempi né nell’entità.

Nel merito, nessuno dei due — né Calenda né Emiliano — è responsabile della situazione critica in cui è stata ridotta l’Ilva tra palli e rimpalli, fughe dalle responsabilità da parte dei vecchi padroni privati, i Riva, ma anche lentezze e irresolutezze istituzionali durate cinque anni. Confusa e pasticciata invece la recente fase di gara. Che infatti vede la cordata vincente al centro di un cambio di partner con l’uscita del gruppo Marcegaglia e l’ingresso al suo posto della Cassa depositi e prestiti, che in origine aveva corso contro, alleata alla concorrente Jindal, sempre indiana ma di altro segno.



Un certo cesarismo renziano ha scandito la brutta vicenda. Un mantra del premier di Rignano, forse freudianamente orientato a rinnegare il provincialismo di cui è intriso il gruppo di potere fiorentino che ha governato il Paese dal 2014 a un anno fa, è sempre stato quello di togliere alle Regioni il diritto di cogestione di materie locali solo in apparenza, essendo in realtà piene di valenze nazionali. Certamente le sorti di uno degli impianti siderurgici più importanti del mondo sono materia di interesse e competenza nazionale. Ma altrettanto certamente l’impatto ambientale di quell’impianto e della sua eventuale perfetta o carente ristrutturazione ecologica sono materie d’interesse locale, che pertengono in pieno alle competenze delle Regioni e del Comune.



E non basta. Calenda chiede la revoca del ricorso al Tar ai due firmatari, pena appunto lo stop alle procedure di vendita dell’Ilva. Ma come può — c’è onestamente da chiedersi — un ministro della Repubblica biasimare così apertamente il ricordo ad un organo giurisdizionale da parte di un cittadino? Il messaggio politico è chiaro: il ricorso al Tar viene fatto per prendere tempo, ed è questa la decisione irresponsabile, pensa più o meno il ministro dello Sviluppo.

Ma questo non è un processo alle intenzioni? Sì che lo è! E si risolve in un implicito discredito all’indirizzo del Tar, che viene equiparato a una specie di porto delle nebbie, di cataplasma paralizzante, cui ricorrere solo per speculare contro il corso naturale di determinate decisioni. Non è così. 

Certo, il ricorso al Tar è un tipico strumento interdittorio di cui molti si servono per prendere tempo. Ma è anche un’arma di difesa del cittadino dai sempre possibili soprusi della pubblica amministrazione.

Il risanamento ambientale dell’Ilva doveva diventare un caso di scuola mondiale. Doveva, quasi quasi, essere messo a bando in sé, perché riuscire a risanare quel vulcano di miasmi è un’impresa di tale complessità da entrare nel Guinness dei primati. 

Ricordiamoci tutti che in 13 anni (dal 1998 al 2010) sono morte a Taranto 386 persone per colpa delle emissioni industriali. Negli ultimi sette anni 174 a causa del Pm10. Tumori allo stomaco o all’ulcera, del sangue. Dati scientifici, prodotti nel 2012 da tre epidemiologi di vaglia come Annibale Biggeri, Maria Triassi e Francesco Forastiere e consegnati a gennaio 2012 al giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto, Patrizia Todisco. Quella denuncia ha dato il via al dibattito sulla risanabilità ambientale (o meno) dell’Ilva e la risposta di esperti di tutto il mondo è che l’impianto può essere risanato ma con grandissimo impegno e dispendio: avrà voglia e capacità la Mittal di svenarsi o preferirà prendere tempo? Cosa garantisce il contratto d’acquisto? Domande impegnative, ad oggi senza risposta, che hanno indotto Emiliano — il quale è sempre stato tenuto dal governo ai margini delle trattative — a fare ricorso al Tar. Il cittadino Emiliano contro lo Stato italiano. Ci può stare.

Se però — sostiene Calenda — il 9 gennaio il Tar dovesse accogliere la sospensiva richiesta da Emiliano, la fabbrica sarebbe costretta a interrompere la produzione e l’investimento da 2,2 miliardi di euro previsto da Mittal diventerà un costo a carico dei contribuenti. 

Chissà, però, se questo scenario fosco è così vero. Gli indiani tutto sono fuorché benefattori. Intervengono nell’Ilva, pur nelle condizioni in cui la trovano, perché sanno che vale, non per beneficenza. Siamo sicuri che non possano proprio venire maggiormente incontro alle esigenze del territorio?

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