Buone notizie dal mondo delle imprese italiane, che nonostante le difficoltà di contesto – tra le più ardue da affrontare tra i paesi avanzati – riescono a toccare nel 2016 il record dei 417 miliardi di esportazioni migliorando dell’1,1 per cento il dato del 2015, che già faceva segnare un avanzamento sugli anni precedenti secondo i dati forniti dall’Istat.



È una buona notizia perché vuol dire che il tessuto industriale è messo meglio del Paese che lo ospita e che all’interno di fabbriche e uffici si sta compiendo quella rivoluzione che stenta a farsi strada nell’opinione pubblica e nella Pubblica amministrazione, dove i cambiamenti sono visti con sospetto (se non con astio) e arretrare è più facile che avanzare.



La storica divaricazione tra il pezzo di società costretto a competere per non morire e l’altra parte che, non vivendo di concorrenza, può consentirsi di riposare sull’alloro di privilegi conquistati in epoche scellerate sta raggiungendo dimensioni non più tollerabili: non tanto e non solo per motivi etico-morali, quanto per assai più pratiche ragioni economiche.

Dunque, il mondo della produzione sta reagendo responsabilmente agli stimoli della crisi rinnovando beni e processi nella consapevolezza che occorre mettersi all’altezza di una sfida sempre più serrata. I vincoli legati al fenomeno non arrestabile né comprimibile della globalizzazione si trasformano così in opportunità che un numero crescente di attori mostra di voler cogliere.



Vendere all’estero, conquistare mercati lontani battendo concorrenti agguerriti e spesso con minore ingombro di leggi e regolamenti, è infatti un esercizio difficile che comporta l’esistenza di organizzazioni complesse e capaci di dare il meglio in ogni funzione. Tutto questo a prescindere dalla taglia, perché i campioni nazionali restano in stragrande maggioranza piccoli.

Se l’Italia resta in piedi nonostante la debolezza dello scheletro politico, che dovrebbe sostenerlo in un progetto-Paese che non si vede, è per la forza dei suoi muscoli formati da centinaia di migliaia di imprenditori e artigiani orgogliosi del loro passato e tanto appassionati di presente da voler scommettere sul proprio futuro a dispetto dei segnali scoraggianti.

Si tratta, se non fosse già chiaro, della punta avanzata della società che combatte e s’impone quasi sempre nell’indifferenza e spesso con l’invidia di chi si attarda perché l’Italia, secondo Paese manifatturiero d’Europa, conserva una cultura ostile all’intrapresa quasi fosse appannaggio di un popolo di privilegiati invece che di coraggiosi disposti a rischiare con sacrificio.

Solo chi conosce i problemi e le dinamiche di chi sceglie di combinare fattori sempre più sofisticati per creare quel valore che torna alle famiglie sotto forma di ricchezza e benessere può apprezzare il ruolo fondamentale dell’impresa e di chi la governa – azionisti, dirigenti, quadri – in un confronto costruttivo con i lavoratori che accettano di condividere la scommessa.

In Italia l’impresa è viva e lotta per restarlo.