Continuano a ritmo serrato le presentazioni di “Volevo fare il pasticciere” (Rizzoli, 2016) scritto da Alberto Balocco con Adriano Moraglio (stasera 23 febbraio a Cuneo (ore 20,45 Sala “La Guida”). Tanti libri in uno: una business history, una saga familiare, un romanzo, un singolare libro-inchiesta sull’Italia glocal che non ha paura del ventunesimo secolo dopo aver messo radici nel diciannovesimo e aver attraversato l’intero ventesimo. Balocco di Fossano è sinonimo di dolci: di dolcezze quotidiane (i biscotti) e quelle che invece festeggiano il Natale dei panettoni o la Pasqua delle uova al cioccolato. Tutto nasce nella confetteria-drogheria del bisnonno Antonio, ma soprattutto dall’energia di Francesco Antonio, il primo Balocco deciso a “fare il pasticciere”, declinazione tipicamente piemontese di un Made in Italy che già allora varcava gli oceani. Il resto è un’avvincente avventura umana che vede il testimone di una famiglia e un’azienda (che da laboratorio artigiano diviene industria) passare ad Aldo Balocco e alla moglie Anna e quindi ad Alberto e ai suoi fratelli. Made in Italy allo stato puro.
Di Alberto Balocco pubblichiamo di seguito le pagine conclusive del volume.
Ultimamente ci penso spesso: all’età di poco più di ventitré anni mi sono trovato a dover mandare avanti un’azienda che fa dolci, e a cinquanta non sono ancora capace a fare il pasticcere. È una cosa buffa. Eppure, il mestiere di pasticcere, anch’io come mio nonno, lo sognavo fin da piccolo. Cimentandomi, quando era possibile, in qualche lavoro, anche molto umile, nelle retrovie, come quando quella famosa estate della prima elementare mi diedero da pulire le teglie con la promessa di ricevere in dono un motorino… In buona sostanza, faccio un mestiere che non so fare.
Eppure amo il lavoro che faccio, mi piace. Quando da bambino guardavo papà, mi piaceva rivedermi nel suo ruolo: quello di guidare un’azienda di dolci. E ho fatto tutto il possibile, affrontando sacrifici e bruciando le tappe, per riuscire a dargli una mano, lottando contro tutto e contro tutti pur di restituirgli quel po’ di serenità che lui aveva perso proprio per colpa del suo lavoro. Qualche fondamentale, mi tocca ammetterlo, me lo sono perso anch’io. Ma è la vita: i conti non tornano mai.
Meno male che ci sono i miei figli. Loro sì, che sanno impastare e fare dolci. Un esempio su tutti? Matteo. Ho un fermo immagine fisso nella mente: lui che a soli quattro anni impasta sul bancone della cucina, infarinato fin sopra ai capelli. O quella volta in cui, appena tornati dalla Sicilia, si è messo a fare cannoli. E che dire, allora, delle Sacher che prepara Diletta? Anche il piccolo Gabriele ha iniziato con i suoi primi dolci. Vedo quanto è bello farli e vorrei proprio imparare anch’io. A dire il vero, ciò che più mi manca del mestiere del pasticcere è il rapporto diretto con il pubblico. Se avessi fatto davvero il pasticcere saremmo uno di fronte all’altro. Oggi, invece, il rapporto con i clienti è indiretto e passa tramite il buyer o il category manager della tal catena, che distribuisce tra i consumatori i nostri prodotti. Non è proprio la stessa cosa.
Il pasticcere? Nell’estate del 2015 – quell’estate maledetta e difficile – mi chiama Oscar Farinetti. Chiede di incontrarmi a Bologna. La proposta mi suona strana: abitiamo vicini, entrambi in provincia di Cuneo. Perché incontrarci così «fuori casa»? Il perché lo capisco ben presto, andando all’appuntamento: lui e Tiziana Primori mi illustrano il progetto di una «Disneyland del food» a Bologna. I responsabili di EatalyWorld mi fanno vedere i rendering e mi illustrano l’idea di fondo che sviluppa le suggestioni provenienti dritte dritte dall’esperienza di Expo 2015, a Milano. «Vogliamo invitare gli stranieri a toccare con mano i valori della nostra cultura enogastronomica» mi spiegano. Ed ecco la proposta: «Abbiamo pensato a te perché tu possa realizzare qui, in piccolo, una fabbrica di panettoni, da mettere in vetrina. Vogliamo un industriale capace di mostrare a tutti un processo delicato come quello della produzione di un lievitato, con una tecnologia tale da far impallidire il più bravo degli artigiani». La proposta mi sorprende, mi alletta.
Accetto, ma a un patto: «Lasciatemi anche fare ciò che faceva mio nonno: paste di meliga, brut e bon, baci di dama, la pasticceria secca che produceva nel suo laboratorio e che vendeva nella sua pasticceria, per far quadrare i conti; per garantire il lavoro ai suoi garzoni, che altrimenti sarebbero stati troppi per la sola vendita di pasticceria fresca nei weekend».
Accetto l’idea di mostrare come nasce un panettone, ma chiedo a Tiziana e a Oscar di lasciar parlare le nostre due anime, i lievitati e i biscotti. Acconsentono, e in breve troviamo l’accordo.
È una sfida avvincente per tutti noi: Ruggero se ne è subito innamorato. Questa volta non ha fatto il «Signor no», neppure per un istante. Anche se non è facile pensare di installare in uno spazio di soli 600 metri quadrati minilinee di produzione di panettoni e biscotti, secondo una logica di artigianato industriale più che di industria artigianale. Nello stesso spazio, aprirà anche la nostra Bottega Balocco Cafè. Anche in questo caso, come per il progetto di piazza Castello, ci stiamo aprendo a un mestiere diverso da quello che facciamo da tanti anni. Servirà un nuovo start up, dovremo formare del nuovo personale, dei nuovi pasticceri. E fra loro, se tutto andrà bene, spero di esserci anch’io. Sta a vedere che è la volta buona che imparo. Maglietta bianca, cappellino bianco. Uno fra i tanti che lavoreranno in vetrina a Bologna.
Volevo fare il pasticcere: forse è arrivato il mio momento. Ma al fondo, al di là di questo sogno, rimane una domanda, quella che ogni imprenditore si fa tutte le mattine guardandosi nello specchio: «Ce la farò? Ce la faremo anche oggi?». Non è un modo di dire… Sono le domande che, credo, si siano posti mille volte mio padre, mio nonno, i miei bisnonni. Sono le domande che vivono dentro la coscienza di ogni imprenditore quando si trova di fronte a scelte difficili, consapevole che dietro l’angolo, anche quando tutto sembra andare bene, c’è sempre il rischio di un imprevisto, di un’emergenza che può mettere in pericolo tutto e tutti. Dentro le preoccupazioni, dentro l’impegno sempre vivo, a spronarti a continuare è la coscienza che altri, prima di te, hanno rischiato tutto. Hanno avuto il coraggio – un coraggio autentico, puro, sincero – di avere paura.
(Nella foto: Alberto Balocco, a sinistra, con Adriano Moraglio)