Il linguaggio delle imprese e quello della politica si stanno vistosamente divaricando. Lo confermano gli avvenimenti degli ultimi giorni che ricalcano un andamento iniziato già da qualche anno in corrispondenza della crisi economica i cui effetti continuano a manifestarsi in varie forme. E mentre una preoccupante quantità di partiti si adatta al tanto peggio tanto meglio, proponendo soluzioni che appaiono più pericolose del problema che si candidano a risolvere, gli industriali si ritrovano tutti insieme a Roma per cercare di porre un argine alla pressione demagogica che confonde le idee.
E così presso la sede di Confindustria – alla presenza del premier Gentiloni e di una nutrita schiera di ministri – si sono confrontate le rappresentanze imprenditoriali di America, Giappone, Germania, Inghilterra, Francia, Canada e Italia: in pratica lo specchio economico (B7) del G7 politico che vedrà presto riuniti a Taormina i grandi della Terra. La dichiarazione congiunta rilasciata dalle Associazioni industriali dei paesi più ricchi è sorprendente se rapportata al momento storico che stiamo vivendo e ribadisce con forza la preferenza per un sistema aperto e dialogante, senza barriere per merci e persone, moderno e connesso.
I produttori di reddito, insomma, sanno bene che per accrescere il benessere c’è bisogno di scambi più fitti e veloci; conoscono bene le dinamiche dello sviluppo e tentano di alzare la voce per farsi sentire da governi che mirano a ostacolare il libero scambio in nome di anacronistici nazionalismi. La minaccia del neo presidente americano Donald Trump di mettere dazi su alcuni prodotti europei per reagire alla presunta chiusura nei confronti della carne di manzo non è che un anello della lunga catena di atti ostili coi quali leader più o meno autoritari ingombrano il campo delle relazioni internazionali.
La tentazione di rinchiudersi nelle quattro mura di casa per non disperdere neanche una goccia delle risorse disponibili può forse funzionare nel breve tempo, ma è destinata a impoverire chi la pratica con ricadute disastrose proprio su quegli strati di popolazione che si afferma di voler proteggere. Per questo collaborazione e cooperazione sono i vocaboli più usati da tutti i rappresentanti delle organizzazioni industriali, nessuno escluso, che sanno di avere problemi analoghi e hanno deciso di provare a rimuoverli insieme secondo la massima sempre in vigore dell’unione che fa la forza.
In base allo stesso principio hanno fatto blocco le Confindustrie di Germania e Italia – primo e secondo paese manifatturiero dell’Unione – consapevoli che la concorrenza si gioca su uno scacchiere globale in considerazione del quale la dimensione del Continente è l’unica possibile per non soccombere. L’Europa costituisce l’area più affluente del mondo con un debito pubblico aggregato inferiore a quello degli Stati Uniti. Se fosse una vera federazione, e non una semplice somma di Stati per lo più malaticci e litigiosi, saprebbe meglio difendere tesori e prerogative che sarebbe delittuoso perdere.
La circostanza che questa presa di coscienza si sia cristallizzata in Italia nel doppio appuntamento del Business Europe della scorsa settimana sotto la guida di Emma Marcegaglia e dell’attuale B7 sotto il coordinamento di Vincenzo Boccia conferisce a Confindustria una centralità che può venir buona all’intero Paese.