In questo interminabile inverno della rappresentanza sociale italiana, l’atteggiamento assunto ieri dai sindacati sul caso Ilva si aggiunge come ennesima dimostrazione di un ancoraggio a criteri e metodi ancor più sterili che sorpassati. Una ripetizione compulsiva di formule vecchie che non solo non conducono più da nessuna parte, ma hanno anche generato molti danni. E il caso Ilva ne è lampante riprova.
Più o meno all’unisono, il “non pagheremo questo prezzo” è risuonato da fonti solitamente molti distanti l’una dall’altra, quasi fosse scattata una comune parola d’ordine. Maurizio Landini, leader della Fiom Cgil: “Non è accettabile che ci sia una riduzione dell’occupazione di questa natura”; “Non sono proponibili migliaia di esuberi”, per il segretario generale della Uil, Rocco Palombella; “Partiamo male”, secondo il segretario generale della Fim, Marco Bentivogli. Un analista di problemi industriali atterrato ieri da Marte, leggendo queste frasi di sbarramento, penserebbe che quindi la preferenza espressa dai commissari governativi che amministrano l’Ilva a favore dell’offerta della cordata Am Investco (ArcelorMittal-Marcegaglia) sancisca l’attuazione di un feroce piano di tagli occupazionali. Ma non è vero, non è vero per niente.
La verità è un’altra, come rileva una nota diramata dai commissari dopo il vertice svoltosi ieri tra il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda e i sindacati. L’organico attuale del Gruppo Ilva è di 14.200 dipendenti, con cassa integrazione straordinaria già autorizzata per 4.100 dipendenti. L’offerta di AM Invesco prevede come primo livello occupazionale 9.400 dipendenti. La popolazione “scoperta” dai tagli programmati (né posto di lavoro, né Cassa) sarebbe dunque di 700 unità. Ma, dicono i commissari, “la Cassa potrà essere incrementata all’occorrenza in linea con l’accordo sindacale che dovrà essere stipulato quale condizione per l’efficacia del contratto di trasferimento degli asset di Ilva al soggetto che sarà aggiudicatario della gara. I dipendenti potranno rimanere in Cigs per tutta la durata dell’esecuzione della attività di risanamento e decontaminazione del sito di Taranto che saranno realizzate dall’Amministrazione Straordinaria a valere sui fondi acquisiti a seguito della transazione con la Famiglia Riva. I fondi a disposizione della procedura sono circa 1,1 miliardi di euro di cui oltre 800 milioni di euro finanzieranno investimenti ambientali da realizzare a cura della Amministrazione Straordinaria”.
Dunque è chiaro: la cassa integrazione c’è, resta e potrà essere estesa fino a coprire tutti gli esuberi. Fin quando, secondo il piano industriale, dal 2023 potrà esserci un incremento della produzione ad otto milioni di tonnellate e un simmetrico incremento dell’occupazione. L’offerta preferita peraltro rispetta l’attuale costo medio annuo per addetto, di 52 mila euro, mentre la cordata alternativa, che prevede fino a 6400 esuberi, lo taglierebbe a 43 mila. È chiaro che se questi impegni si rivelassero mendaci, si aprirebbe un grave problema sociale, a Taranto: ma non v’è ragione di temerlo, a oggi.
Piuttosto, è stupefacente che i sindacati non ritengano quantomeno doveroso accostare a questi loro allarmi “di prammatica” un po’ di sana autocritica. Quale vigilanza hanno praticato negli anni della cattiva gestione dell’azienda fatta da Riva, sia sul piano della qualità industriale che delle emissioni? In un’azienda fortemente sindacalizzata, dov’erano i capi che oggi si lagnano quando la proprietà Riva non ottemperava – a quanto risulta da ormai abbondantissima documentazione – ai doveri di salvaguardia ambientale e d’investimento sugli impianti? Un atteggiamento del genere sembra evocare lo “stile Alitalia”, quel “no” sindacale aprioristico alla condivisione dei sacrifici che peraltro nel caso della compagnia di bandiera non era avallato dai sindacati, ma ha per ora sortito l’effetto di un’altra proroga del coma, a spese pubbliche, senza però porre alcuna premessa di rilancio.
Ecco, l’Ilva è un’altra cosa: era e resta un’azienda veramente privata, dove se non si torna al profitto non si potrà mantenere né l’occupazione, né la produzione e prima o poi si rischierà davvero di chiudere.