Alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella si svolgerà il 21 e 22 prossimi, mercoledì e giovedì, la terza e ultima tornata delle celebrazioni per il centenario di Confindustria Napoli. Qualcuno potrebbe chiedere che cosa ci sia da festeggiare e bene farebbe perché ci darebbe la possibilità di rispondere. Intanto è l’occasione per ricordare che l’insediamento industriale al Sud è antico e nobile. Dopo i fasti dell’epoca borbonica (i fasti, proprio così) con i tanti primati che si possono riconoscere dopo troppi anni di negazione e nascondimento, è utile mettere alcuni puntini sulle “i” rimaste orfane.
Il fatto che questo accada con la legittimazione del Presidente della Repubblica dovrebbe aiutare a trovare il coraggio e la fiducia a lungo mancate per il senso di colpa che ha accompagnato un intero ceto dirigente, politico e imprenditoriale, almeno dalla fine dell’intervento straordinario a oggi. Dunque, Napoli è stata una grande città industriale e ci sono tutte le condizioni perché possa tornare a esserlo in senso moderno. Ci sono i capitali, gli strumenti, le persone (gli imprenditori che ce la fanno qui diventano immortali) e manca solo una forte determinazione che spazzi via la rassegnazione.
È vero, la distanza con il Nord che la Svimez misura da mezzo secolo con certosina precisione continua ad allargarsi. E il reddito per abitante, almeno quello misurato dalle stime ufficiali, è ancora una frazione di quello nazionale. Ma accanto alle debolezze evidenti cominciano a emergere i punti di forza. Merito anche di una nuova visione di Confindustria che rivendica la centralità della questione industriale in un Paese che vanta la seconda manifattura in Europa nonostante una cultura largamente ostile all’impresa considerata accaparratrice di risorse, anziché motore di sviluppo condiviso.
Vuol dire che qualcosa si è sbagliato nel proporsi all’opinione pubblica e che c’è un vuoto da colmare come compito per gli anni a venire. Un vuoto che le organizzazioni di categoria possono (e quindi devono) colmare se diventano consapevoli del proprio ruolo e di quello che rappresentano. La preferenza per l’impiego pubblico, pagato male, ma in fin dei conti comodo e sciaguratamente privo di responsabilità, non ha la forza attrattiva di una volta perché si è capito che una società ben orientata e competitiva non ammette zone franche e tutti devono contribuire al successo comune.
Se il problema cardine del Mezzogiorno e della sua capitale resta il lavoro, segnatamente quello giovanile e femminile, la soluzione non può che essere ricercata e trovata in quelle particolari unità che vedono operare insieme il popolo dei produttori compatto nello sforzo di conquistare spazi e apprezzamenti di mercato.
Certo, occorre impegnarsi sui comportamenti che non devono più lasciare dubbi sulle finalità che non possono essere di vantaggio per alcuni e sofferenza per altri. Ma anche su questo sta mutando la coscienza e una più larga conoscenza delle pratiche migliori e delle potenzialità non può che far bene. Offrire alla città una riflessione sulle capacità che contiene e le opportunità che potrebbe cogliere è un valore che va condiviso. Perché la ripresa, la ripartenza di cui tanto si parla e si scrive, non può che arrivare dagli uomini e dalle donne che dal dire passano al fare. Che al pensiero uniscono l’azione.