In rapporto alla stima di crescita media del Pil europeo 2017 del 2,1%, la previsione di un’espansione dell’economia italiana dell’1,4% indica la persistenza di enormi problemi, pur essendo motivo di ottimismo se comparata alla recessione/stagnazione 2012-2016. La crescita corrente è più trainata dall’esterno, cioè dalla ripresa globale che stimola l’export, che dai consumi e investimenti interni, pur questi in leggero incremento, dato che indica la persistenza di freni alla crescita stessa.



Sistema produttivo: le industrie italiane che esportano sono ancora troppo poche rispetto al complesso. Il contributo dell’export al Pil italiano, infatti, è di circa il 30%, mentre in Germania è di oltre il 50%. Lavoro e salari: le aziende tendono a non assumere perché i costi di licenziamento determinati dalla legge in caso di guai aziendali sarebbero insostenibili. Nel 2002 in Germania il governo Schroeder decise di caricare sulla fiscalità generale i costi di sostegno ai licenziati per rendere più leggeri quelli delle aziende: questa misura contribuì a rilanciare l’efficienza dell’industria tedesca e a metterle le ali per volare nel mondo, cosa che poi produsse la crescita elevata dell’economia e la piena occupazione. In Italia la politica non mostra simile lucidità strategica.



Gli stimoli all’industria restano parziali, pur ottimi come il 4.0, e non sistemici. Sul piano dei salari privati manca la soluzione più logica e vantaggiosa per tutti: oltre allo stipendio base, permettere un premio annuale per il dipendente calibrato sui risultati dell’azienda, con carico fiscale minimizzato. L’idea di agganciare il salario alla produttività, con contratti specifici in ogni azienda, è ostacolata dai sindacati. E le aziende non se la sentono di alzare gli stipendi senza tale aggancio perché sarebbe un suicidio.

In sintesi, in Italia la disoccupazione resta elevata e i salari sono troppo bassi per la persistenza di un’ideologia che frena sia investimenti, sia consumi. Aggiungiamo al freno il numero elevato di poveri assoluti o quasi, tra cui un milione di giovani che per povertà non accedono alla formazione. Ci vorrebbe un “welfare d’investimento” e sostegno per i più bisognosi, ma l’attuale modello alloca molte risorse fiscali per mantenere apparati pubblici abnormi togliendole ad altri impieghi. Il governo cerca di limare questi difetti depressivi del modello, ma senza un cambiamento più incisivo la ricchezza nazionale non potrà crescere in modo sufficiente, duraturo e socialmente diffuso.



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