Il dato di fondo è ormai evidente: il futuro dell’economia italiana (e non solo) si giocherà sul fronte dell’innovazione digitale, con quel modello che viene denominato “Industria 4.0”. Un nome che è un duplice richiamo: da una parte tutto ciò che ruota attorno a internet e alle sue infinite connessioni, dall’altra il fatto che siamo di fronte a una rivoluzione dagli effetti altrettanto importanti delle precedenti tre rivoluzioni industriali, quella delle macchine, quella dell’elettricità, quella dell’elettronica, che si sono dispiegate negli ultimi due secoli.



“Industria 4.0” è diventato così un obiettivo da raggiungere, ma anche un piano di intervento di politica industriale fondato su un insieme di misure come gli incentivi fiscali, le agevolazioni creditizie, le facilitazioni burocratiche, i sostegni agli investimenti. Per rispondere all’esigenza di sposare il più possibile l’innovazione e insieme di sfruttare le opportunità legislative, l’industria italiana si trova tuttavia di fronte a un serie di ostacoli di non facile superamento. In primo luogo ci sono i ritardi particolarmente rilevanti sul fronte delle indispensabili infrastrutture di supporto: si pensi all’ancora scarsa penetrazione delle fibre ottiche e della banda larga. Poi c’è il dato strutturale di un sistema industriale basato sulle piccole e medie imprese, in grandissima parte di proprietà e guida famigliare in cui appare più complesso, ma comunque non impossibile, aprire la porta a nuovi investimenti. Collegato a questo c’è la difficoltà di percorrere vie alternative al credito bancario per ottenere i finanziamenti. 



Ma non ci si può fermare ai problemi quando si ha la possibilità di individuare insieme le soluzioni. Magari guardando anche all’altra faccia della medaglia. I ritardi, per esempio, permettono di utilizzare le applicazioni più recenti e con migliori performance. Le piccole imprese hanno una maggiore capacità di adattarsi al cambiamento. Le agevolazioni legislative possono costituire un moltiplicatore delle potenzialità di sviluppo.

In questa prospettiva il vero asso nella manica dell’Italia potrà essere la capacità di trasformare gli elementi critici, molto spesso derivanti da luoghi comuni, in potenzialità aggiuntive sul fronte della sfida innovativa. Tenendo conto che non si tratta solo di sfruttare meglio l’automazione, di collegare qualche stampante a tre dimensioni, di diffondere la logica della connessione, ma di avviare un processo rendendo sempre più elevati i ritorni positivi (economicità, sicurezza, rapidità, qualità). È una strada possibile. Lo dimostra il libro “La fabbrica connessa” curato da Luca Beltrametti, Nino Guarnacci, Nicola Intini e Corrado La Forgia (Ed. Guerininext, pagg. 216, euro 18,50) in cui si analizza lo stato dell’arte insieme alle opportunità dell’attuale momento di innovazione tecnologica. Con un’analisi che mette in rilievo proprio le potenzialità capaci di superare i fattori critici. 



Per esempio, il fatto che gli aumenti di produttività derivanti dalle innovazioni possono sì ridurre i posti di lavoro, ma possono nello stesso tempo costituire un elemento per spingere al “reshoring”, cioè al ritorno di capacità produttive in passato delocalizzate. Senza dimenticare gli effetti positivi a cascata che si possono prevedere. Come sottolinea nell’introduzione Elio Catania, presidente di Confindustria digitale, “l’impatto della fabbrica connessa è di una profondità senza precedenti. Travalica le mura delle industrie per impattare sulla società, sulla pubblica amministrazione, sulla cultura. Trasforma i modi di lavorare, di fare impresa, le relazioni industriali; richiede al sistema dell’istruzione nuovi obiettivi e modalità formative, esige infrastrutture sempre più efficienti, veloci, una logistica intelligente”. 

In fondo stiamo parlando di una rivoluzione. Conoscerla è già un primo passo per trarne i maggiori vantaggi.