Da tempo andiamo dicendo che, dopo il 4 marzo, siamo dentro una fase di riconfigurazione del potere sindacale. Naturalmente ciò non può non riguardare anche l’associazionismo d’impresa. Per quanto riguarda la Confindustria, l’uscita di Vincenzo Boccia di sabato scorso (“crediamo nella Lega”) fa pensare che gli industriali siano arrivati a un giro di boa. Da una parte, Boccia auspica che la Lega, ben più vicina del M5S al sistema delle imprese, possa in questa fase delicata portare equilibrio a una manovra che si presenta molto sbilanciata verso misure di assistenzialismo sociale. La speranza non è infondata: non è un caso che, dopo il varo del Def, l’atteggiamento tenuto da Salvini sia stato molto più cauto di quello di Di Maio.
Lo stesso Claudio Borghi (economista di riferimento della Lega e Presidente della Commissione bilancio della Cmera), parlando del reddito di cittadinanza ha ricordato come non sia una misura propagandata dalla Lega e che sia ancora tutta da declinare; così come del resto è da implementare l’intera manovra. Per il momento ciò che è stato scritto è soltanto un documento da portare a Bruxelles per agitare le acque: questa è la volontà e la priorità di Salvini. Cosa fare poi, è un problema secondario.
Posto che con Bruxelles è già iniziato il contenzioso – il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici ha espresso il suo disappunto sul Def varato dal Governo – con la Commissione europea sarà trovato un accordo che permetterà all’Italia di avere una flessibilità importante da investire. E, se non potranno fare tutto ciò che hanno promesso, Salvini e Di Maio potranno sempre dire che non è colpa loro. È chiaro che a loro ciò che innanzitutto interessa vincere è la battaglia con l’Ue. Il problema di fondo non è il deficit in sé, ma come viene spesa la liquidità che lo sforamento genera. Ecco perché il Presidente degli industriali in questo momento ha scelto di tenere questa posizione, per orientare qualche scelta del Governo sulla crescita al di là della spesa corrente. Altrimenti moriremo di assistenzialismo.
Ma c’è dell’altro: come abbiamo già scritto su queste pagine tempo addietro, il Governo vuole portare fuori da Confindustria le aziende partecipate dallo Stato. Ed è proprio Matteo Salvini che vuole impedire, di fatto, alle partecipate dal Tesoro (Enel, Eni, Ferrovie, Leonardo, Poste) di associarsi anche indirettamente a Confindustria. L’idea non è nuova, già Matteo Renzi aveva minacciato viale dell’Astronomia in tal senso; ma, nei tre anni in cui è stato Primo ministro, da questo punto di vista non è successo nulla. Questa, per Boccia, è la paura più grande: ciò vorrebbe dire privare gli Industriali di molte risorse.
All’interno di Confindustria, tuttavia, il tema è molto sentito: Boccia non è solo, la sua uscita non può essere a titolo personale; ma non sono pochi coloro che vorrebbero che Boccia dicesse a Salvini di riprendersi pure le aziende dello Stato. Ciò, effettivamente, priverebbe la Confindustria di risorse, ma le restituirebbe la sua identità. Che senso ha che gli industriali siano associati insieme alle aziende partecipate dallo Stato? La verità è che la coabitazione di imprese pubbliche e private rende impossibile una rappresentanza efficace, soprattutto quando gli interessi delle industrie manifatturiere entrano in collisione con le aziende del terziario e dei servizi. Se, ad esempio, pensiamo ai costi dell’energia – in Italia superiori del 30% rispetto alle economie più avanzate – Confindustria in questo senso dovrebbe attivarsi per trovare delle soluzioni e alleggerire il problema per la manifattura. Ma ha al suo interno le aziende che producono energia.
Il problema di fondo resta quindi la scelta tra l’essere autonomi o subalterni al Governo: una forte componente di industriali vorrebbe vedere la propria associazione lanciare una sfida al governo, che sarebbe tra l’altro molto utile al Paese. Le accuse di Carlo Calenda non sono casuali, l’ex ministro dello Sviluppo economico sa bene di cogliere nel segno e sa bene di intercettare quel malumore dell’industria privata più rampante, a cui si è principalmente rivolto col suo piano Industria 4.0.
La crisi della rappresentanza sociale riguarda tutte le organizzazioni del lavoro e dell’impresa, l’era digitale e la crisi economica segnano un passaggio verso un nuovo orizzonte da cui le nostre sono ancora lontane. Più o meno, lo stesso problema di autonomia si pone per le organizzazioni sindacali: non solo è ora che Cgil, Cisl e Uil guadagnino la loro indipendenza politica, ma è anche ora che le forze sociali si elevino rispetto alla loro funzione di erogare servizi (che a vario titolo intercetta risorse pubbliche).
Il punto è che, però, si riesce ad arrivare a un nuovo orizzonte se si ricostruisce un’identità. In questo quadro, gli industriali italiani hanno forse oggi di fronte un’occasione per tornare a essere una vera rappresentanza d’impresa. Ne saranno capaci? Forse Salvini, senza volerlo, gli sta dando una mano…
Twitter: @sabella_thinkin