Se non ci fosse un governo da nominare all’indomani di una delle campagne elettorali più pazze del mondo con un esito da rebus e con pezzi che a occhio non s’incastrano ma che alla fine in qualche modo dovranno andare al loro posto, la notizia della firma del documento che riforma i rapporti tra Confindustria e sindacati – il cosiddetto Patto della Fabbrica – sarebbe di gran lunga la più importante degli ultimi anni.
Sì, perché mentre le forze politiche stentano a trovare una cornice condivisa dentro la quale operare le dovute alchimie (sforzo che toccherà di compiere al Capo dello Stato), le parti sociali scrivono e sottoscrivono una nuova e decisiva pagina nel corposo libro delle relazioni industriali per affermare una volta per tutte che si passa dal conflitto alla collaborazione riconoscendo alle imprese lo stato di patrimonio comune e motore di crescita.
È un passo in avanti gigantesco, impensabile fino a un paio di anni fa quando si cominciò ad affacciare una nuova visione della fabbrica e della società che mettesse al centro le persone e la loro voglia di progredire. Certo, l’evoluzione tecnologica ha avuto i suoi meriti (in particolare la trasformazione digitale dovuta all’applicazione dei dettati di Industria 4.0), ma la capacità dei protagonisti è stata superiore alle aspettative.
L’esperienza, quella della contrattazione italiana in particolare, insegna che le strade del rinnovamento sono lastricate di buone intenzioni, ma raramente portano a qualcosa. C’è sempre un intoppo, un imprevisto, un ripensamento che mette fine ai migliori propositi e consiglia di lasciare tutto com’è. Motivo per il quale il riformismo da queste parti è visto con il sospetto che non merita. Far saltare il tavolo è più facile e popolare.
Questa volta no. Vincenzo Boccia per Confindustria, Susanna Camusso per la Cgil, Anna Maria Furlan per la Cisl, Carmelo Barbagallo per la Uil – anche grazie al paziente lavoro dei rispettivi negoziatori – hanno saputo superare gli ostacoli che ingombravano il loro cammino con una tenacia raramente sperimentata prima d’ora. Segno che quando gli obiettivi si vogliono davvero raggiungere è possibile anche in situazioni difficili.
Ed è un segnale di comportamento responsabile: sempre invocato – basta seguire la cronaca politica di questi giorni per averne un’idea -, ma praticato con grande difficoltà e quasi sempre come estrema ratio. Confindustria e sindacati hanno attinto alle riserve della loro autonomia per cambiare corso senza condizionamenti esterni. Cercando al proprio interno le ragioni dell’unità evitando così intromissioni e possibili condizionamenti.
Al centro dell’accordo c’è la consapevolezza di dover costruire un sistema industriale più competitivo e che sappia trasferire all’intero Paese l’urgenza di modificare priorità e comportamenti. Trasferendo più potere alla contrattazione decentrata – territoriale e aziendale – si afferma il principio che al necessario incremento della produttività deve collegarsi l’aumento dei salari saldando gli interessi dell’impresa e dei suoi lavoratori.