Non è (ancora) un miracolo. E forse non lo diventerà mai se, a complicare la via della ripresa, interverranno ostacoli internazionali (aumento dei tassi, protezionismo Usa, rallentamento della congiuntura internazionale) o difficoltà più domestiche, in qualche maniera legate al dopo volo. Ma per il momento è giusto segnalare il rally di una fetta rilevante dell’economia italiana, che rischia di essere oscurata dai segnali del disagio e della povertà così come sono emerse dal rapporto della Banca d’Italia e dal plebiscito elettorale nel Sud per il Movimento 5 Stelle, associato al successo della proposta del reddito di cittadinanza. Ma, a guardare alle statistiche più recenti del triangolo d’oro, Lombardia Veneto-Emilia Romagna, emerge che accanto all’Italia del disagio prende corpo una realtà ben diversa, frutto di profonda evoluzione dell’economia e della società della parte più vivace del Nord che ha ormai assunto le redini dell’economia italiana così come sta riemergendo dalla crisi. 



In Lombardia, la locomotiva principale del Paese, la produzione industriale, già in salita del 2,5% 12 mesi fa, ha registrato nel corso dell’ultimo anno un’accelerazione formidabile: +3,1% tra giugno e settembre, addirittura +5,1% a fine 2017, sotto la spinta dell’aumento del tasso di utilizzo degli impianti che ha toccato un massimo storico (il 77,9%). Ma non è azzardato sperare che questi record possano essere superati dai numeri del primo trimestre, viste le altre variabili illustrate dall’analisi di Unioncamere. Salgono sia gli ordini interni (+7,5%) che quelli esteri (+10,0%), il fatturato totale (+7,9%) e, non meno importante, il periodo di produzione assicurata dagli ordini: 69 giornate, nove in più dei livelli di inizio 2017. 



Arrivano segnali, se possibile ancor più positivi dall’Emilia Romagna, altra regione che finalmente sta lasciando alle spalle lo shock degli anni bui, quelli che sono costati all’industria italiana la perdita di un quarto del suo potenziale (l’effetto di una guerra). “Il Pil regionale – si legge nella previsione macroeconomica di Unioncamere – dovrebbe risultare superiore dell’8,7% rispetto ai livelli minimi toccati al culmine della crisi nel 2009”. Anche se, a frenare l’entusiasmo basta rilevare che il dato di fine anno sarà “ancora sostanzialmente in linea con il livello del 2007”. Ma a confortare l’ottimismo arrivano altri numeri: “Per il 2018 si stima un’ulteriore accelerazione della dinamica delle esportazioni (+5,5%), nonostante l’evoluzione del cambio: al termine dell’anno corrente il valore reale delle esportazioni regionali dovrebbe superare del 23,3 % il livello massimo precedente la crisi”. Grazie a queste performance (e alla ripresa del mercato interno), la crescita stimata del Prodotto interno lordo della regione dovrebbe raggiungere l’1,9% (contro l’1,8% del 2017). 



A confermare l’aria di ripresa arriva dal Veneto la voce di Alberto Baban, ex presidente della Piccola Impresa di Confindustria, che sulle colonne del Corriere del Veneto ha lanciato il segnale che “il Veneto sta crescendo a ritmi cinesi”. Anche in questo caso l’affermazione trova conforto nei numeri di Unioncamere: la produzione industriale risulta cresciuta rispetto all’anno prima del 6,3% e i numeri sono ancora più alti se si parla di sole Pmi. Quelle tra i 10 e i 49 addetti fanno segnare +7,1% e +6,7% le aziende da 1 a 9 dipendenti. Dietro questo dato c’è molto di più di un rilievo statistico. Per capirlo può servire proprio l’esempio di Baban che, ceduta l’azienda a un fondo italiano con la missione di far crescere le imprese oltre frontiera, oggi è alla testa di Venetwork, una spa che riunisce 57 imprenditori della regione impegnati in operazioni di finanziamento di iniziative nuove o da rilanciare. 

Un buon esempio di un tessuto economico che, lungi dal subire passivamente gli effetti della lunga crisi e del blackout dei finanziamenti delle banche negli anni più difficili, si è rimboccato le maniche andando a caccia di nuovi canali di finanziamento. Anche la piccola impresa, insomma, ha imparato a muoversi in una logica da “grande”, all’interno di un’organizzazione della produzione che privilegia la specializzazione, che richiede investimenti e nuove competenze, oltre alla flessibilità. Il risultato è che, contraddicendo le analisi correnti, le statistiche premiano le piccole imprese, spesso le più innovative nella stagione della produzione in 3 d. 

È il “triangolo d’oro” ad offrire la chiave più convincente della ripresa della manifattura italiana, già data in grave e irreversibile declino, ma che, al contrario, ha garantito nel 2017 un avanzo commerciale di 47,5 miliardi, che salgono a 81 al netto della bolletta dell’energia. A trainare la ripresa sono stati vari fattori, a partire dalla capacità di integrarsi nella catena del valore che ha per centro la Germania meridionale. 

Ma alle spalle c’è un salto culturale rilevante. Basta scorrere l’elenco delle aziende approdate in Borsa tramite l’Aim (Alternative Investment Market) e l’afflusso dei capitali grazie della formula dei Pir per capire che ci troviamo di fronte a un cambiamento strutturale di un tessuto di imprese in cui, tra l’altro, molte start-up cominciano a ragionare in termini di intelligenza artificiale, Fintech oltre che di App. Un mondo nuovo, neanche tanto piccolo che il Partito democratico non è stato in grado di intercettare lasciando spazio ai concorrenti. 

È l’Italia che ce l’ha fatta a emergere da una competizione durissima, consapevole che nella competizione globale vale la legge della bicicletta: se smetti di pedalare, caschi per terra. In termini politici la si può associare al successo della Lega, il partito che con più coerenza si è schierato per un robusto taglio delle tasse, un’esigenza molto sentita da chi ogni giorno deve combattere concorrenti che operano in sistemi più efficienti e meno costosi. Un’esigenza legittima, ma che può condurre a risultati concreti solo all’interno di un piano che tenga conto anche della parte del Paese più debole. Di qui il vero problema: individuare un terreno comune. Impresa difficile quanto necessaria: in Europa non esistono veneti o lombardi, ma solo italiani.