Perfino all’Alitalia funzionò: nel 1997 l’allora amministratore delegato della compagnia di bandiera, Domenico Cempella, firmò un accordo con l’Anpac, il potente sindacato dei piloti amichevolmente definito “Aquila selvaggia”, allora guidato dal comandante Augusto Angioletti, che divenne consigliere d’amministrazione della compagnia, in preparazione di una “fase due” che poi non decollò mai. Ma quel biennio fu l’unico, e l’ultimo, in cui l’azienda godette di una stabile pace sindacale e fece utili.



A collaudare strutturalmente in Italia quella “pietra filosofale” che sembra essere, a guardarla dal nostro piccolo angolo di visuale, la partecipazione dei dipendenti alla “stanza dei bottoni” di una grande aziende tocca oggi, esattamente vent’anni dopo l’Alitalia, all’Alcoa, la multinazionale dell’alluminio basata in Sardegna. L’azienda, malconcia da anni, sta per essere acquisita dal colosso Sider Alloys. E la nuova proprietà punta tutto su un cambio radicale di approccio dei lavoratori rispetto alla sfida di quel risanamento che si fa attendere da oltre dieci anni. E per dare sostanza a questa scommessa, ha deciso di coinvolgerli, i lavoratori, con una modalità che negli Stati Uniti e in Germania è normale, ma altrove è sconosciuta. La partecipazione al capitale, con un 5% delle azioni offerte in prelazione e con modalità agevolate ai lavoratori, e la partecipazione alle decisioni, con quella presenza nel consiglio d’amministrazione. “Sarà il primo caso – ha detto il ministro Calenda a commento dell’intesa raggiunta tra azienda e sindacati con la benedizione del ministero, dimenticandosi del precedente Alitalia – in cui i lavoratori partecipano alla gestione dell’azienda e se lo sono ampiamente meritato”. 



Tanto per battere un colpo, la Cgil si è detta perplessa sul 5%: introducendo un distinguo, reale ma un po’ marginale, tra il consiglio d’amministrazione, al quale viene cooptato un sindacalista, e il “consiglio di sorveglianza”, un organo distinto dal cda, che ricorre nelle società che si dotano della cosiddetta governance “duale”, rarissima in Italia, e che (e qui la Cgil ha ragione) rappresenterebbe “un primo e importante passo verso l’applicazione dell’art. 46 della Costituzione”.

In realtà, la questione è molto più di “apparenza” che di sostanza. Incardinare la “voce” dei lavoratori in una sede decisionale effettiva come il consiglio d’amministrazione – dove si decide a maggioranza sulla base del capitale che nomina i consiglieri – non significa modificare i pesi del potere tra la proprietà vera, che non si accontenta certo di controllare il 5% dei voti nell’assemblea dei soci, e quella componente di qualsiasi azienda – i lavoratori – che sono, sì, determinanti per il buon andamento gestionale ma costituiscono anche fisiologicamente un interesse diverso, e a sé stante, rispetto a quello della proprietà vera e propria.



Sarebbe d’altronde ingiusto parlare di puro e semplice “fumo negli occhi”. In America, il potere dei sindacati transita simbolicamente anche attraverso la loro partecipazione al consiglio d’amministrazione, ma s’incardina ben più concretamente in un’altra modalità di cogestione, che è la loro partecipazione massiva alla proprietà attraverso i fondi pensione. Tutti ricordiamo che la Chrysler è passata sotto il controllo della Fiat grazie ad un accordo che Sergio Marchionne seppe intessere con l’Uaw (United automobile workers), il potentissimo sindacato americano dei metalmeccanici, che attraverso il fondo pensioni controllava il 40% dell’azienda. Il 40%, non il 5%.

Peraltro, anche quella formula ha in sé qualcosa di profondamente iniquo, perché coinvolge doppiamente i lavoratori nel buon esito (o cattivo) dell’andamento aziendale: da una parte, con lo stipendio, e dall’altra con la pensione. Quando un’azienda fallisce e smette di pagare gli stipendi, di solito chi ci lavorava si trova pure senza pensione. Sai che soddisfazione. Senza però aver mai avuto davvero nelle mani i destini aziendali, impostati e dettati dalla proprietà classica, quella costituita dai soci di capitale, che non a caso – anche nella vicenda Chrysler – uscirono di scena solo dopo aver condotto l’azienda al dissesto, con decisioni unilaterali, subite e forse anche avallate ma non certo concepite dalle rappresentanze sindacali.

In quello strano Paese che è l’America, e che somiglia alla Germania per il senso della disciplina e dell’adesione ingenua a un ideale fallace di concordia tra parti sociali sostanzialmente antagoniste, l’adesione disciplinata a interessi virtualmente comuni ma in verità contrapposti è la regola. Nei Paesi latini, la regola è opposta, il capitale diffida dei lavoratori e della loro sincera adesione alle esigenze dell’azienda, e i lavoratori diffidano del capitale considerando propenso a fregarli.

Non a caso l’Alcoa di italiano ha solo la residenza, connessa ai giacimenti di bauxite dei quali un tempo la Sardegna abbondava, ma non certo la mentalità. Attenzione: non che in Italia non ci siano esempi illustri di aziende cogestite dai loro lavoratori. Ma si chiamano cooperative. In esse, il capitale finanziario non ha ruolo, o comunque non ha un ruolo guida. I lavoratori cogestiscono votando “per testa” e non per quote possedute, tutto l’utile finanziario viene reinvestito e non distribuito, il dividendo è totalmente destinato a irrobustire le risorse indivise dell’azienda. È una forma di socialismo comunitario, versione edulcorata del marxismo possibile che, dalle Coop alle banche popolari, ha dato tanto all’economia del nostro Paese.

Auguri ai compagni inconsapevoli dell’Alcoa. Dopo tutte quello che hanno passato, questa nuova sfida non potrà certo nuocergli di più. Ma non s’illudano. Non sarà il loro magro 5%, o quella poltroncina in consiglio, a salvare l’azienda. L’augurio a loro è dunque lo stesso che si potrebbe fare a qualsiasi azienda capitalistica classica, dove tutto il potere è a chi possiede il capitale e gli strumenti di cogestione nelle mani dei dipendenti sono quelli, e solo quelli, classici delle conquiste sindacali: la protesta, le assemblee, i volantini, gli scioperi. Si chiami dialettica sociale, si chiami antagonismo, si chiami lotta di classe, ma almeno ha il pregio di essere una cosa precisa e nota.

La cogestione più funzionare, certo. Ma non basta il 5%, non basta uno strapuntino in un consiglio. Poi, per carità: esteticamente la novità “dona” a qualsiasi azienda. Ma è uno di quei cambiamenti che si fanno perché tutto gattopardescamente resti tale e quale.