La visibilità politica è scarsa e le previsioni economiche sono incerte. Il Fondo monetario internazionale dice che per quest’anno il mondo continuerà a crescere e anche l’Italia lo farà, sia pure meno dei partner europei e forse solo meglio della Grecia. I problemi dovuti ai disordini del commercio internazionale innescati dal presidente americano Donald Trump con la sua pratica dei dazi cominceranno a farsi sentire nel 2019, quando la crescita del Prodotto interno lordo rallenterà la corsa perdendo l’abbrivio.



Tutto questo senza considerare due circostanze che per il nostro Paese giocano assai a sfavore come l’addio di Antonio Tajani alla presidenza del Parlamento europeo con le elezioni di primavera e il cambio della guardia alla Bce, dove in autunno termina l’era di Mario Draghi. La preoccupazione degli osservatori e degli operatori più accorti riguarda l’alto livello del debito pubblico nazionale in rapporto alla ricchezza prodotta con il rischio (quasi realtà) di dover scontare alti tassi d’interesse una volta attenuato o terminato il Quantitative easing.



Con questa espressione, che i lettori abituali delle cronache finanziare hanno imparato a conoscere da tempo, s’intende l’immissione nel sistema di liquidità in modo da mantenere molto basso il costo del denaro con effetti benefici sui bilanci pubblici. Quando il vantaggio finirà, com’è previsto che accada nei prossimi mesi, è chiaro che pagare gli interessi sarà molto più costoso di oggi e a subirne le conseguenze saranno i Paesi maggiormente indebitati come l’Italia. Dunque, una criticità non da poco da fronteggiare presto.

Non a caso prima l’Ocse e poi lo stesso Fondo monetario internazionale si stanno interrogando su come intervenire per abbassare l’esposizione e rientrare in parametri meglio gestibili. Si fa l’ipotesi di colpire i patrimoni e la rendita con effetti incerti sulla salute generale. Se i relativi successi di oggi sono frutto delle scelte di ieri – Jobs Act, Industria 4.0, credito d’imposta – e della cosiddetta stagione delle riforme così bruscamente interrotta, i risultati di domani non potranno che discendere dalle decisioni che si prendono oggi. E se adesso, nel momento della maggiore confusione istituzionale, non ci si accorge dei danni che l’incertezza provoca è perché la forza d’inerzia si avvantaggia della spinta che viene dal passato. Le conseguenze dello stallo attuale verranno a galla domani e saranno dolori.



Quando il quadro generale è così confuso, gli imprenditori tendono a rallentare le decisioni d’investimento se non addirittura a sospenderle o a cancellarle del tutto con gravi ripercussioni sulla crescita, l’occupazione, il benessere collettivo. Un problema non da poco. Se si ferma l’impresa si ferma il Paese. Per questo le forze produttive, un po’ tutte a prescindere dalla dimensione delle organizzazioni e dalle simpatie, invitano il governo che verrà a non mettere da parte le cose buone che hanno dimostrato di funzionare.