La curiosità per il caso italiano, a Sofia – dove nei giorni scorsi si è tenuta la riunione semestrale di BusinessEurope -, era palpabile. Riunite per mettere a punto il Manifesto per l’Industria da sottoporre alle forze politiche che tra qualche mese si contenderanno il Parlamento di Strasburgo, le Confindustrie dell’Unione guardano con attenzione al possibile governo giallo-verde per cercare di capire quali conseguenze possa avere sul quadro comune. 



L’Italia è un membro importante del consesso comunitario e una sua autorevole esponente, Emma Marcegaglia, ne è presidente in attesa di lasciare il comando entro il prossimo mese di luglio al numero uno del Medef francese Pierre Gattaz. Tra i presenti rimbalza il contenuto del contratto che il leader della Lega Matteo Salvini e il capo politico del Movimento 5Stelle Luigi Di Maio stanno elaborando da qualche giorno con alti e bassi difficili da decifrare.



Trapela – ma per i giornali italiani non è un mistero – che viene data grande enfasi allo sviluppo del settore agricolo, che si considerano con sospetto le grandi infrastrutture che infatti non compaiono dal programma, che s’ipotizza la riconversione dell’Ilva di Taranto, che l’unico rimedio alle difficoltà del Mezzogiorno è il reddito d’inclusione o un suo clone…, che, insomma, non si ritrova nel documento alcun riferimento alla politica industriale.

Eppure, questa la considerazione generale, l’Italia è il secondo Paese manifatturiero d’Europa e resiste nella classifica dei primi sette al mondo. Eppure, gli strumenti messi a disposizione dell’esecutivo uscente – in primo luogo Jobs Act e Industria 4.0 – hanno mostrato di generare effetti positivi sull’economia reale provocando un incremento degli investimenti privati del 30 per cento e innalzando di oltre il 7 per cento le esportazioni.



Certo, l’occupazione è aumentata più velocemente al Nord che al Sud – dove il recupero del livello pre crisi ancora non c’è stato -; ma un milione di posti si è complessivamente avuto e di questi tempi non è poco. Soprattutto, sono quindici trimestri di fila che il Pil sale e, sia pure senza brillare troppo, l’economia si stava scaldando per accendere i motori di una ripresa solida e duratura, foriera di una crescita compatibile con le aspettative di imprese e famiglie. Adesso bisogna considerare l’impatto delle nuove politiche sull’andamento della produzione e sulla tenuta dei conti. E, ancora una volta, i partner europei guardano all’Italia per vedere se e come saprà sbrigarsela con novità tanto improvvise quanto dirompenti. E, soprattutto, prendono le contromisure per evitare di dover fronteggiare in casa propria problemi analoghi. Come conciliare il lavoro con il reddito gratis? Come restare competitivi senza infrastrutture?

Il fatto è che le organizzazioni industriali d’Europa stanno capendo prima e meglio dei rispettivi governi che l’Unione deve al più presto trovare elementi di maggiore integrazione per resistere e reagire alle pressioni commerciali di giganti come gli Stati Uniti e la Cina che, sia pure con modalità diverse, stanno diventando formidabili concorrenti in campo industriale: i primi giocando in difesa, i secondi all’attacco. Anche la formidabile Germania, presa da sola, può capitolare.