C’è qualcosa che non va nella “narrazione” che domina nei giudizi sulla realtà italiana. Predomina l’immagine di un Paese perennemente in crisi, travolto da una politica inconcludente, dove l’esigenza primaria sembra essere quella del cambiamento. Certo, i problemi non mancano, ma c’è sempre meno spazio sui giornali e nei talk show per i tanti aspetti di una realtà che è fatta di imprese che crescono, di città che si rinnovano, di successi di un “made in Italy” che appare sempre di più un fattore vincente in un mercato mondiale in cui si riscopre qualità e bellezza. 



Hanno (purtroppo) sempre spazio i cultori del malumore, i profeti del tutto da rifare, i pittori a tinte fosche degli affreschi dipinti a larghe pennellate sulla pagine dei quotidiani dai toni sempre più disarmanti. Eppure, almeno fino a qualche settimana fa, prima della tempesta politica, i dati dell’economia segnalavano un andamento finalmente positivo: con una crescita forse non tumultuosa, ma concreta, della produzione, un aumento dei posti di lavoro, un buon andamento delle esportazioni, una sostanziale stabilità sul fronte dei tassi di interesse e quindi della sostenibilità del debito pubblico.



Al di là delle considerazioni strettamente politiche resta il fatto che la percezione popolare è stata e rimane molto distante dal Paese reale, una percezione che cerca nell’Europa un capro espiatorio delle difficoltà, che vede perenni complotti finanziari nelle tensioni dei mercati, che pensa che sia possibile moltiplicare la ricchezza e distribuirla a larghe mani. In questa prospettiva i grandi numeri e le visioni generali impediscono di guardare vicino, di scoprire che la realtà economica è fatta dalle decisioni, dalle scelte, dall’impegno di milioni di persone che si affannano ognuna al proprio posto a perseguire insieme il proprio interesse e quello generale. È significativo allora guardare ai buoni esempi, alla realtà di aziende che hanno percorso con fiducia la strada dell’innovazione, anche e forse soprattutto in ambiti del tutto tradizionali, quasi antichi.



È il caso dell’acqua “Sant’Anna” e del suo protagonista, Alberto Bertone, che insieme al giornalista Adriano Moraglio ha raccontato in un libro (“I custodi della sorgente”, Rubbettino, 2018) l’avventura che ha permesso di creare in poco più di vent’anni un’azienda che è diventata leader nel suo settore e che è riuscita a esportare anche in Cina l’acqua dei monti piemontesi. È un racconto emblematico perché dimostra come l’innovazione non sia solo nei prodotti ad alta tecnologia e come la creatività possa riuscire a far superare anche le più impervie difficoltà. Per l’acqua Sant’Anna innovazione vuol dire, tra l’altro, sfruttare in maniera coraggiosa la pubblicità comparativa, ma anche mettere in opera processi produttivi e gestionali in grado di realizzare il massimo di efficienza e di razionalità. E creatività vuol dire puntare su forme inedite, dalle bottiglie in materiale biologico, ai nuovi prodotti in grado di rilanciare un bene come l’acqua, antico quanto il mondo.

Sullo sfondo, giorno per giorno, c’è una grande volontà di valorizzare le persone puntando in primo luogo sulla passione più che sulle competenze. Perché le competenze si possono acquisire sul campo, mentre la passione è una virtù che difficilmente si può imparare. “Sono le persone – afferma Bertone – a darti coraggio e a riaccendere l’entusiasmo”. Imparando a migliorare e accettando le sconfitte come un segno della necessità di non fermarsi. Con fiducia. Perché è questo nostro stanco Paese ad aver bisogno di persone che predichino e pratichino la fiducia.