Qualche giorno fa, il ben informato Stefano Livadiotti scriveva che Matteo Salvini sta lavorando a un provvedimento per impedire, di fatto, alle aziende partecipate dallo Stato (Enel, Eni, Ferrovie, Leonardo, Poste) di associarsi anche indirettamente a Confindustria. L’idea non è nuova, già Matteo Renzi aveva minacciato viale dell’Astronomia di portar fuori le partecipate dal Tesoro. La sua nomina di Mauro Moretti alla guida di Finmeccanica era anche stata letta in questo senso. Ma, 4 anni dopo, siamo ancora lì. Nulla è successo se non qualche fuoriuscita spontanea dall’Associazione degli Industriali.
La crisi della rappresentanza riguarda tutte le organizzazioni del lavoro e dell’impresa, l’era digitale e la crisi economica segnano un passaggio verso un nuovo paradigma da cui le nostre sono ancora lontane. Il punto è che, però, si riesce ad arrivare a un nuovo orizzonte se si costruisce su un’identità. Venendo alla Confindustria, ha senso che gli industriali siano associati insieme alle aziende partecipate? Condividono interessi convergenti?
La verità è che la coabitazione di imprese pubbliche e private rende impossibile una rappresentanza efficace, soprattutto quando gli interessi delle industrie manifatturiere entrano in collisione con le aziende del terziario e dei servizi. Se, ad esempio, pensiamo ai costi dell’energia – in Italia superiori del 30% rispetto alle economie più avanzate – Confindustria in questo senso dovrebbe attivarsi per trovare delle soluzioni e alleggerire il problema per la manifattura. Ma ha al suo interno le aziende che producono energia.
La crisi di rappresentanza delle associazioni di categoria sembra essere più profonda rispetto a quella che vivono le organizzazioni sindacali, meno attraversate da conflitti di interesse. Inoltre, da troppo tempo ne risultano evidenti le lungaggini, i costi di adesione sono elevati e, qualcuno dice, troppo alti rispetto ai servizi offerti. La crescente contrattazione aziendale pone domande serie anche sul futuro della contrattazione collettiva e del contratto nazionale di lavoro. E il fatto che le associazioni, oltre al contratto, offrono anche servizi utili all’impresa – e non c’è dubbio che lo siano – non attenua i problemi di fondo.
D’altro canto, alla voce industria, il governo – nel bel mezzo della quarta rivoluzione industriale – si è espresso poco e male: nessun riferimento concreto al piano industria4.0, nessuna certezza sulla più grande acciaieria d’Europa e la maggiore industria del Mezzogiorno (Ilva, vale l’1% del Pil), no alla Tav.
In questo quadro, gli industriali italiani hanno di fronte la grande occasione di tornare a essere una voce importante. Ne saranno capaci? Forse, Salvini – più che colpirli – sta dando loro una mano.
Twitter: @sabella_thinkin