Senza concedere a Luigi Di Maio detto (da Vincenzo De Luca) Giggetto – “ministro del lavoro altrui” (copyright e Oscar della vivida ferocia di Giorgio Mulè) – neanche un grammo delle tonnellate di pane che dovrà mangiare e digerire prima di definirsi con un minimo credibilità all’altezza dell’enorme ruolo che il caso, e undici milioni di elettori inconsapevoli, gli hanno affidato… bisogna dire che sull’Ilva nessuno ha titolo per parlare più di lui, per quanto paradossale sembri. Insomma, se Grillo spara una delle sue balle spaziali per indicare il Sol dell’Avvenire di Taranto nel modello della tedesca Ruhr, grandissima bonifica dei tempi che furono, stia buonino Carlo Calenda e reprima i brividi che dice di aver avvertito leggendola, al calduccio, anzi nel bel freschetto del suo attico ai Parioli, tanto più ironizzando – proprio lui! – sulla terrazza genovese dalla quale parlava Grillo. Una guerra tra ricchi, non certo tra poveri.



Neanche lui ha alcun titolo per parlare. Lo fa perché ha scoperto la politica da grande, ed è tutto emozionato, scalmanato, come capita anche a chi scopre l’amore-passione fuori tempo. Si illude di poter ereditare qualche pezzo dello sfascio dei partiti di “ala”, la destra alla scomparsa di Berlusconi o la sinistra prima che scompaia tutto. Tanto, per lui destra o sinistra sono la stessa cosa, come lo sono sempre state per la “gauche caviar” da cui proviene. Si rassegni: ha il carisma di un puf da salotto. È un manager bravo, aveva un mestiere prima di “scendere in campo”, aveva avuto lo stomaco di lavorare al fianco di Montezemolo, niente da dire. Ha perfino fatto una cosa giusta, Industria 4.,0. Ma la politica, non è mestiere suo.



In fondo, di politica sicuramente, ma anche di Ilva, ha appunto titolo per parlare – se sapesse che cosa dire – solo Di Maio, perché comunque il ministro è lui, ed è anche lui il capo dei Cinquestelle. Ma la buona notizia è che non l’ha fatto, non ha parlato! Uno straordinario segno di buon senso. O meglio ha parlato solo per dire una banalità utile a prendere tempo, che è appunto ciò che serve: “Voglio dare un messaggio chiaro a tutti coloro che hanno queste preoccupazioni (sulla possibile chiusura dello stabilimento, ndr) – ha detto -. Qualsiasi decisione sarà presa con responsabilità e attenzione, non davanti alle telecamere, non in un’intervista. Dobbiamo fare tutti i passaggi istituzionali”. Quindi, fin qui, bravo Giggetto.



Nel merito, val la pena ricordare le pietre miliari del disastro Ilva. In principio, c’è la scellerata e criminale irresponsabilità della proprietà privata, i Riva, che – al netto del solito, ignominioso, confuso, pasticciato, interminabile e vago iter giudiziario – hanno lasciato versare in condizioni ecologiche tragiche le strutture dell’impianto, al punto da farsene espropriare (mai successo a simili livelli, in Italia). Condizioni omicide, ed è stato quindi criminale averle lasciate crearsi. Disastroso due volte l’intervento della magistratura; prima per il commissariamento congelante che ha disposto, poi per le lungaggini; disastrose le prime mosse politiche, prese dal governo Letta, ma aggravate di gran lunga da Renzi, anche in odio personale contro Michele Emiliano, l’unico protagonista istituzionale di questa storiaccia ad aver sempre mantenuto una linea coerente e anche interessante, ostentatamente ignorata dal distruttore di Rignano (distruttore del suo partito innanzitutto) che non lo riconosceva come interlocutore solo per odio politico.

Pessima anche la gestione della gara che ha condotto all’attuale possibile soluzione, cioè la vendita dell’impianto al colosso siderurgico Mittal, che viene in Italia – se alla fine ci viene – al solo scopo di farsi meglio i suoi interessi, insinuarsi nel ricco mercato europeo, non certo investire sul serio quanto servirebbe per continuare a produrre ma in sicurezza. Basti pensare che lo Stato, attraverso la sua emanazione diretta Cassa depositi e prestiti, è sceso in campo nella cordata perdente! Neanche Grillo però – nel suo vaniloquio sulla Ruhr – propone di chiudere l’Ilva ma di bonificare l’area come appunto hanno fatto i tedeschi illo tempore. Non sa di cosa parla, ma afferma, sic: “Nessuno ha mai pensato di chiuderla. Ci sono circa 2,2 miliardi di euro che sono stati immessi in un fondo quando l’Europa si chiamava Ceca dalle imprese di carbone e acciaio proprio per i pensionamenti dei lavori usuranti e per le bonifiche. Dato che l’Ilva è la più grande centrale dell’acciaio d’Europa, potremmo cercare di accedere direttamente a questo fondo che attualmente è gestito dal Consiglio europeo – spiega -e messo, credo, all’ingrasso in qualche fondo tripla A tedesco, presumo”. 

L’esempio da seguire? Appunto “quello del bacino della Ruhr in Germania: oltre 4mila chilometri quadrati di superficie, oltre 6 milioni di abitanti, 142 miniere di carbone, 31 porti industriali fluviali e 1.400 km di autostrade e tangenziali tra Bonn, Colonia, Düsseldorf e Leverkusen”. Un’area – scrive Grillo – “finita di bonificare in dieci anni”, tra il 1990 e il 2000, che ancora oggi rappresenta “un esempio seguito da tutti gli architetti, i bio-architetti e gli ingegneri del mondo industrializzato”.

Fin qui, con breve seguito, lo sproloquio del comico. E Di Maio, calmo calmo, ha replicato in burocratese. Palla al centro, si continua la non-partita sull’Ilva. Ma per ora lasciamo in pace Giggino. Quel che gli sta capitando è chiarissimo. Si sta “Tsiprasizzando” senza nemmeno aspettare la Troika. È stato eletto, come il collega greco, per fare la rivoluzione, finirà col fare il notaio delle necessità e della sovranità limitata. Dice: e le promesse? Quali promesse? Federico Pizzarotti, brava persona e bravo amministratore, si fece eleggere la prima volta sindaco di Parma giurando che avrebbe chiuso l’inceneritore. Appena entrato a palazzo si rese conto, da persona in buona fede, che sarebbe stato assurdo e non l’ha spento. Per questo e per altro Grillo l’ha radiato, e lui è stato eletto una seconda volta con una sua lista civica. Un buon modello per Giggino.

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