Diceva un grande industriale che “occorre superare le divisioni fra capitale e lavoro, industria e agricoltura, produzione e cultura”. Se pensiamo a Ilva, sembrano parole perfette per un caso che si auspica vicino a un fondamentale tornaround. Come avevamo anticipato in tempi non sospetti, il commissariamento in scadenza 30 giugno è stato prorogato al 15 settembre. Ciò vuol dire che sono slittati i tempi per la cessione ad Arcelor Mittal, il player che si è aggiudicato il bando pubblico per l’acquisizione dell’azienda italiana. In assenza di questa proroga, Mittal avrebbe potuto rinunciare all’acquisizione oppure procedere direttamente con le assunzioni (cosa che difficilmente avrebbe fatto per il rischio di ingovernabilità degli stabilimenti).



Il 15 settembre è, dunque, data cruciale per il futuro dell’azienda, ma anche dell’industria siderurgica in Italia. Ed è una scadenza che, se non rispettata, può avere conseguenze determinanti: l’operazione potrebbe diventare irrecuperabile. La complessità è altissima, tanto quanto i benefici che la sua conclusione può comportare, sia per la riambientalizzazione del territorio, sia per il rilancio del sito produttivo di Taranto: Ilva, secondo gli esperti, può diventare la migliore acciaieria del mondo per standard ambientali e tecnologici. E Taranto può tornare a essere un grande distretto produttivo del nostro Paese. Vedremo cosa succederà, ma la sensazione è che entro la fine di luglio ci possa essere una svolta. E quindi un accordo che – al di là del gioco delle parti – tutti vogliono, a partire da Mittal.



Luigi Di Maio sa che con questa operazione si gioca molto e ha preso posizione nei confronti delle mistificazioni di Beppe Grillo sulla trasformazione dell’acciaieria in un parco di archeologia industriale. I sindacati si sono molto divisi sulla proposta che era stata formalizzata da Carlo Calenda. Tuttavia, la mancanza dell’accordo non era dovuta ad aspetti prettamente sindacali, ma, piuttosto, politici; e sono gli stessi aspetti che fanno oggi pensare che l’accordo si farà.

Innanzitutto, cosa aveva messo sul tavolo Carlo Calenda? Difficilmente Di Maio – al di là del fatto che Mittal possa aumentare le assunzioni al momento previste (10.000 lavoratori, rispetto ai 13.800, assunti dalla nuova Ilva allo stesso livello salariale, inquadramento e diritti attuali) – potrà venire meno a una proposta similare: 1) 1.500 persone in carico alla società mista costituita da Invitalia e Amministrazione straordinaria per svolgere per la nuova Ilva i servizi esternalizzati e le bonifiche; 2) incentivo volontario all’esodo per 2.000 persone con una combinazione di 5 anni di cassa e 100.000 euro di bonus; 3) Garanzia finale, da parte della Società per Cornigliano e di quella per Taranto, di assunzione delle persone eventualmente rimaste senza prospettive alla fine del piano.



I sindacati premono, in particolare, per salvaguardare i livelli occupazionali; e può essere che l’azienda sarà convinta ad assumere più di 10.000 lavoratori. Ma il punto vero è un altro: la maggioranza della base sindacale di Taranto – che naturalmente rappresenta lavoratori e persone stremate da questo caso, sia nei suoi aspetti industriali che ambientali – è piuttosto vicina alle posizioni del M5S e non gli par vero di ridiscutere di questo accordo con Luigi Di Maio, ora ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico. Forse, quando Calenda nell’ultimo incontro con le delegazioni sindacali è stato delegittimato a continuare la trattativa, nessuno si aspettava di poterla proseguire con Di Maio, ma certamente già si contava di poterlo fare con un governo, anche, a cinque stelle, sapendo di consegnargli un successo importante, perché tale sarà la conclusione di questa lunga vertenza.

Ilva non è solo un caso di possibile riconcilizione tra capitale e lavoro, industria e territorio, ma anche un grande banco di prova per la riconfigurazione dei rapporti tra politica e sindacato. L’accordo ci sarà. E anche il grande industriale, Adriano Olivetti, ne gioirà.

Twitter: @sabella_thinkin

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