Il Decreto dignità ha prodotto l’originale risultato di compattare gli imprenditori del Nord Est che sono usciti allo scoperto contestando con decisione i suoi provvedimenti e, in particolare, l’introduzione della causalità per il rinnovo dopo i primi dodici mesi dei contratti a tempo determinato. Gli industriali veneti sono la punta dell’iceberg di un movimento molto più largo e profondo che mette insieme Confindustria e le associazioni che si riconoscono in Rete Imprese Italia, in rappresentanza di qualcosa come 2,5 milioni di aziende grandi, medie, piccole e piccolissime.
Contro le decisioni di Luigi Di Maio, nella doppia veste di ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, si è saldato l’intero mondo imprenditoriale italiano con la sola eccezione della Coldiretti, che in buona parte ispira e condiziona le scelte del governo giallo-verde. Gli imprenditori, con Confindustria in testa, concordano con le finalità espresse dall’esecutivo: nel caso specifico, di voler diminuire l’area della precarietà. Ma non è con gli strumenti apprestati che si possono raggiungere gli obiettivi indicati. Anzi, si corre il serio rischio di ottenere l’effetto contrario.
In particolare, l’inserimento in contratto della ragione per la quale si rinnova l’assunzione a tempo determinato (la fatidica causale) può essere – e per esperienza sarà certamente – l’origine di molte incomprensioni e interpretazioni diverse che potranno trovare composizione solo in tribunale. Perché accettare l’azzardo di un giudizio quando è possibile evitare il contenzioso alla radice modificando il titolare del rapporto? A questa domanda il ministro Di Maio risponde che così si fa in altre parti d’Europa, ma non tiene conto del carattere specifico della giustizia in Italia che non dà sufficienti garanzie d’imparzialità e celerità.
L’antidoto, dunque, è far ruotare più persone nello stesso posto anno per anno impedendo di fatto che la relazione si consolidi e si trasformi in definitiva. Certo, la norma contestata sarà affiancata da un incentivo all’assunzione a pieno titolo; ma la misura del vantaggio non è tale da rimontare lo svantaggio. Ora si attendono la discussione in Parlamento e le possibili modifiche al testo.
Di Maio appare meno convinto di dover difendere fino alla morte una legge che le imprese ritengono nemica del lavoro. E il capo del Carroccio Matteo Salvini non ne può più di essere tirato per la giacca dai suoi. Gli industriali del Nord, infatti, non perdonano al leader leghista – per il quale hanno votato in massa – di far finta di niente mentre l’alleato grillino prende di mira le loro aziende rendendo a tutte loro la vita più difficile. Non si doveva andare verso un governo amico delle imprese e facilitatore?
I giorni a venire diranno quali sviluppi avrà la situazione. E se siamo di fronte a un errore di comunicazione o a qualcosa di più grave. Ma è paradossale che gli attori dello sviluppo, le imprese, debbano difendersi proprio da chi lo sviluppo economico deve promuovere. In un’epoca, per giunta, definita post-ideologica.