In un mondo pieno di competizione stressante, di persone senza scrupoli, in cui bisogna negoziare sia nel lavoro che nella vita, si può costruire una società che non solo sia leader nel proprio mercato, ma anche un luogo vivibile? Leggendo lo splendido libro “Creatività al potere” di Armando Fumagalli, professore ordinario di Semiotica e docente di Storia del Cinema presso l’Università Cattolica, la risposta che viene spontanea da dire è: “Si, è la Pixar!”.
In questo saggio, pubblicato da Lindau, Fumagalli traccia uno scenario lucido e senza sconti di come funzioni il business cinematografico di Hollywood. Dal suo racconto, molto approfondito e pieno di rimandi storici e bibliografici, emerge un quadro molto meno favoleggiante di quello che normalmente ci rappresentiamo. Dietro alla realizzazione dei film, infatti, ci sarebbero enormi attenzioni al business che questi possono generare, ovviamente, ma anche enormi pressioni ideologiche per far sì che narrino un certo modo di pensare alla vita e ai valori. Il tutto inteso secondo la parola americana “liberal”, quindi a favore dei matrimoni omosessuali, della fecondazione assistita e via dicendo.
Non voglio qui però entrare in questo interessante e delicato aspetto del libro e del pensiero di Fumagalli, quanto evidenziare in sintesi quello che emerge dal suo testo quando racconta un modo di intendere il business (e di vita) diverso: il modello Pixar. Ricordiamo innanzitutto che la storia della Pixar è quella di un’ininterrotta serie di successi al botteghino, come nessuna major ha mai avuto nella storia del cinema mondiale.
Partendo da questo dato oggettivo, Fumagalli evidenzia tre ragioni del successo della Pixar: la prima è identificata con l’espressione “Quality is the business plan” di John Lasseter, uno dei fondatori della Pixar. Prima ancora del marketing e della scelta della star di successo che possa guidare la scalata al botteghino, secondo il modello di Hollywood, al centro di tutto c’è la consapevolezza che ci vuole una grande storia. A tal proposito Pete Docter, uno dei capi della Pixar, ha scritto: “Per me i personaggi sono sempre la cosa più importante. Cerchiamo di creare personaggi che il pubblico trovi interessanti e divertenti. Cerchiamo anche di creare personaggi che hanno spazio per crescere e cambiare; questo è ciò che rende una storia veramente soddisfacente”.
La seconda parola chiave che emerge dalla storia della Pixar è comunità. La creazione del film, partendo dalla stessa stesura della sceneggiatura, è infatti costruita in team di diverse persone che vengono spronate a un continuo confronto e a richiedere feedback a tutti coloro che daranno un contributo al film. Questo aspetto si comprende nella sua complessità e rivoluzione se si apprende, come nella prima parte del libro è raccontato, che le sceneggiature sono quasi sempre opere di persone sole che vendono il loro operato alle major che poi mettono in movimento la macchina del business, finendo spesso per stravolgere la storia iniziale per venire incontro a tutte le richieste (e i capricci) dei partner del film, come quelle delle star, del regista e delle major stesse. Per questo sorprende leggere che in Pixar Docter dica spesso l’espressione “Dare to be stupid”, che significa non aver paura di riconoscere gli errori, per fare meglio. Oppure l’altra espressione “Be wrong as fast as you can”, cioè non aver paura di abbandonare un’idea coltivata per accoglierne un’altra migliore, magari che proviene da un collaboratore.
La terza parola chiave è formazione. In Pixar infatti hanno costruito una vera e propria Accademy in cui si possono frequentare corsi e lezioni di vario tipo: da quelle sulle competenze tecnologiche più all’avanguardia per poter dare soluzioni sempre innovative alle storie, ad argomenti relativi alle soft skills.
Impressiona in tal senso leggere le parole di un accademico di Berkeley che era stato chiamato a svolgere una docenza sulla fauna marina mentre il team della Pixar stava scrivendo la storia su “Alla ricerca di Nemo”. Adam Summers non sapeva perché era stato chiamato proprio lui a svolgere quella lezione, ma commentò dicendo: “Non ho mai incontrato studenti così. È la miglior classe di studenti di dottorato che abbia mai avuto. Non potevo andare avanti per più di tre o quattro parole e mi tempestavano di domande di tutti i tipi”.
La storia della Pixar mostra quindi come una società di successo è innanzitutto una comunità che si muove per costruire qualcosa di grande, fosse anche semplicemente una grande storia, e che per realizzare un successo dietro l’altro serve un costante esercizio per saper affrontare in team le avversità che ognuno può incontrare lungo il lavoro.
Per far accadere tutto questo si può quindi prendere ad esempio i fondatori della Pixar che diedero fiducia ai loro collaboratori e gli fecero capire che il progetto cui stavano lavorando era degli altri quanto loro. Questo è un rischio che tanti Ceo dovrebbero imparare a correre perché, come dice Catmull, altro fondatore dell’azienda: “La Pixar è una comunità nel vero senso della parola. Pensiamo che le relazioni di lunga durata siano importanti e condividiamo alcune convinzioni di base: il talento è raro. Il compito del management non è di evitare rischi, ma di costruire le capacità di recuperare quando ci sono errori. Deve essere sicuro, dire la verità”.