No, forse non ci siamo capiti. Forse chi pensa che la vendita della maison Versace agli americani della Michael Kors sia semplicemente un’altra puntata del classico fuggi-fuggi degli imprenditori italiani che vendono baracca e burattini agli stranieri, è fuori strada, ma proprio fuori come un balcone. La verità è che il caso Versace è un miracolo. Un miracolo dell’imprenditoria genuina più verace, più autentica e più resiliente. Dura come l’Aspromonte, o come la Sila, le montagne di quella Calabria da cui viene la famiglia che ha venduto. Ma bella come il mare e le coste in cui quelle montagna affondano le loro pendici.
Quando il serial killer Andrew Cunanan freddò a Miami Beach, nel 1997, il 51enne Gianni Versace – stilista, fondatore e capo-azienda del suo gruppo, in una parola: tutto! – il piombo di quella pallottola tracciò un solco di sangue nel cuore di un’intera famiglia e di un’intera azienda. Azienda giovane, ancora fragile. Soli al comando, una sorella e un fratello, Donatella e Santo. Dei quali fatalmente, fino a quel punto, nessuno si era preso cura. Sulle loro spalle un peso enorme, e beffardo. Stesso cognome, nessuna considerazione. Un fratello geniale, all’apice del successo, dalla fama e della gloria. Che aveva intuito e portato al successo, per primo in Italia – associandolo al suo nome – il concetto di un “total look” che andava oltre l’abbigliamento, per abbracciare arredamento per la casa, orologi, alberghi, profumi, inducendo i concorrenti a imitarlo. Che aveva rivoluzionato il fashion italiano, eguagliando Armani, ma in un universo nuovo e tutto suo, e collocandosi molto sopra tutti gli altri.
Gli spari di quella pistola, e tutto sembrò svanito. Ma non era vero. Vent’anni non erano passati invano. Da quel 1978 in cui, a Reggio Calabria, i fratelli Gianni e Santo Versace avevano fondato la Casa della Medusa – ricordando quando Gianni aveva imparato il mestiere di sarto dalla mamma – molta acqua era passata, per tutti, sotto i ferri. Il trasferimento a Milano, il boom internazionale: era stata per i fratelli una scuola di vita e di professionalità, il successo globale, con le grandi top model degli anni Ottanta e Novanta tutte ipnotizzate dalla Medusa: Cindy Crawford, Carla Bruni, Naomi Campbell, Claudia Schiffer o Helena Christensen. Un heritage che valeva quanto le collezioni.
Donatella e Santo Versace si rimettono a lavorare. All’inizio attorniati da molto, troppo scetticismo. Ogni giornata è una sfida, contro tutto e tutti. Ci vuole la dura forza delle montagne calabresi per resistere, ma resistenza è. E anche intelligenza: quella di chiamare in soccorso dei bravi professionisti. E ce la fanno. Il primo top-manager è stato Giancarlo Di Risio, ai comandi dell’azienda dal 2004 al 2009, un tagliatore severo ma benefico, capace anche di investimenti illuminati in Oriente – Cina e Hong Kong – e poi fino al 2016 Gian Giacomo Ferraris, un dirigente specializzato nel fashion. Applica un nuovo piano strategico di Bain, completa il lungo percorso di risanamento e superamento dei debiti. Gestisce nel 2010 un primo allargamento dell’azionariato vendendo a Blackstone il 20% dell’azienda per 210 milioni di euro. Alla consolle stilistica, sempre Donatella, che sembra acquisire con gli anni – anziché perdere – tocco magico, visione, gusto. Dunque, successo.
Adesso, la vendita: non c’è una seconda generazione particolarmente incline a questo business, e le dimensioni del mercato sono sempre più grandi. La famiglia non uscirà del tutto dal capitale, ma si ridurrà a un ruolo di minoranza. Anche Blackstone vende le sue quote a Kors, sulla base di una valutazione da 2 miliardi di dollari. L’azienda che passa agli americani ha un fatturato – dati 2017 – ben 668 milioni di euro, in utile per quasi 15 milioni dopo una perdita di 7,9 milioni nel 2016. Non ancora quotabile, per i gusti di Wall Street. Il compratore, Michael Kors, ha chiuso l’anno fiscale 2017-2018 con ricavi consolidati di 4,72 miliardi di dollari (+5%) e un utile di 591,9 milioni (+7,1%).
Alla notizia dell’acquisizione ha perso quota a Wall Street: la Versace è un boccone grosso per chiunque. Ma a Wall Street non sanno cos’è l’imprinting calabrese, dna puro nelle cellule dell’azienda. Resilienza, coraggio e creatività. Stiano tranquilli, quelli di Wall Street: l’America ha fatto un buon affare. E, soprattutto, ha incorporato una straordinaria trasfusione di eleganza.