Un investimento di 56 milioni di dollari, avviato da operatori italiani per produrre “energia pulita” da una piccola centrale idroelettrica in Honduras e che garantiva lavoro a oltre 3.500 persone, tra 500 addetti diretti e 3mila indiretti, rischia di andare in fumo. E’ quanto sta accadendo – ma in Italia non se ne è mai data notizia – al progetto “Petacon”, sito tra i paesi di Lepaterique e Reitoca, a due ore di auto dalla capitale Tegucigalpa: una vicenda in cui si intrecciano opposizioni politiche sfociate prima in proteste violente, e poi anche in violazioni, usurpazioni e pesanti minacce, che hanno costretto l’evacuazione e la chiusura di un impianto, la cui costruzione è già arrivata al 70% del progetto.



L’investimento è stato avviato nell’aprile del 2016 su invito per una politica di attrazione degli investimenti del Governo honduregno volta a favorire l’installazione di nuove tecnologie rinnovabili per sopperire alla drastica mancanza di energia e per conseguire una matrice energetica più in linea con i princìpi di Kyoto. Il progetto, realizzato nel pieno rispetto e in piena conformità con tutte le best practices internazionali dal punto di vista delle normative contrattuali e ambientali, ha seguito i piani di avanzamento prestabiliti, senza alcun intoppo. Finché, nel novembre 2017, la vittoria alle presidenziali dell’allora capo di Stato in carica, Juan Orlando Hernandez, scatena un’ondata di proteste da parte dei gruppi oppositori, in un crescendo di manifestazioni e di blocchi stradali che colpiscono il Paese nei mesi successivi.



In questo contesto molto difficile e complicato, il 15 gennaio 2018, in un paese a 25 chilometri dalla centrale in costruzione, un gruppo di oppositori marcia verso l’impianto, cercando di bloccare i lavori. A fine gennaio le manifestazioni si intensificano, arrivando anche a blocchi stradali e a minacce pesanti contro dirigenti e operai che lavorano nella centrale. Nonostante la presenza della sicurezza privata interna e nonostante il perimetro dell’impianto fosse recintato, i manifestanti forzano i cancelli, entrando nella centrale e compiendo a più riprese atti violenti e vandalici.



A quel punto, dopo aver provveduto all’evacuazione in sicurezza del personale impiegato, i dirigenti della centrale Petacon decidono di denunciare i fatti al Tribunale di Tegucigalpa per violazione di proprietà privata, minacce, danni e furti. Ma i raid continuano, in un’escalation di violazioni, e a settembre 2018 viene addirittura appiccato un incendio, che colpisce gli uffici della società, gli alloggi del personale addetto e gli spazi dedicati a un piccolo club interno a disposizione dei dipendenti. Non solo: viene anche incendiata la condotta dell’acqua, in gran parte già posata per collegare la diga con la turbina della centrale, e i manifestanti arrivano anche a costruire un piccolo immobile sull’unica via di collegamento all’impianto, impedendone di fatto l’accesso.

I dirigenti del progetto Petacon non cessano di informare e di sollecitare il governo dell’Honduras, affinché intervenga per porre fine a questi atti ostili, ma le autorità si mostrano lente e poco attente alla questione, che pure colpisce molte persone che proprio grazie alla centrale hanno potuto avere un lavoro e uno stipendio in una delle aree più povere del Paese.

Il 27 novembre 2018 il Tribunale di Tegucigalpa riconosce la legittimità dei comportamenti e dei diritti della società, invitando le autorità honduregne ad attivarsi affinché la centrale possa essere messa di nuovo nelle condizioni di poter operare senza intralcio alcuno. Ma dopo quella pronuncia tutto resta fermo.

Si arriva così al 16 gennaio 2019, quando le maestranze della centrale esprimono la volontà di poter tornare a lavorare. Accompagnati dai dirigenti della società, si presentano ai cancelli dell’impianto, ma per tutta risposta vengono accolti da una cinquantina di persone, armate anche di mitragliette, che arrivano addirittura a sequestrare un dirigente per diverse ore, minacciando di ucciderlo, se gli operai non avessero abbandonato subito la centrale. Per evitare conseguenze peggiori, lo “scambio” viene accettato: la liberazione avviene nel momento in cui i lavoratori escono dalla centrale.

Scattano nuove denunce, ma a tutt’oggi non si registra alcuna reazione da parte del governo. Nel frattempo i dirigenti della società contattano le associazioni di categoria (Aher) e il Cohep, la Confindustria locale, organizzando una conferenza stampa, che raccoglie vasta eco nel Paese, per denunciare la situazione, ormai insostenibile. Dal governo, invece, arrivano risposte ancora una volta evasive. Finché il 4 febbraio scorso i responsabili del progetto manifestano la loro disapprovazione con una lettera indirizzata al ministro dell’Energia.

A causa di questa situazione, incredibile e caotica, l’investimento, che avrebbe dovuto iniziare la produzione e vendita di energia elettrica nel luglio 2018, ha già subìto danni, diretti e indiretti, per 10 milioni di dollari e ogni giorno di blocco costa 15mila dollari.
Anche altre iniziative imprenditoriali simili versano nella medesima condizione e alcuni operatori hanno già gettato la spugna.

Fino a quando durerà questo stallo? E fino a quando dureranno il silenzio e l’inerzia delle autorità? Fino a che punto il Governo honduregno è disposto a rischiare la fuga di capitali stranieri che portano enormi benefici al Paese e che potrebbe limitare il fenomeno della migrazione? Non sarà l’inizio di una deriva già vista in altri Paesi…