Gli attesi giorni del vertice sono arrivati e giovedì 28 febbraio e venerdì 1° marzo le Confindustrie di Italia e Francia si sono incontrate e confrontate a Versailles alla presenza e con la partecipazione di un nutrito gruppo d’industriali e personalità di entrambi i Paesi. Tutto si è svolto secondo le aspettative. Non è tanto il contenuto della dichiarazione finale – che con coerenza si concentra sui vantaggi e i valori di un’Europa fondata sulla forza e l’intelligenza delle sue imprese – a colpire alla fine dei lavori, quanto il metodo e gli obiettivi: parlarsi per capirsi e contribuire a costruire un’Europa più forte, più giusta, più inclusiva.
Parole, è vero, ma che rappresentano la consapevolezza del cambiamento vero e inarrestabile che si è abbattuto sull’economia mondiale e sulla politica internazionale a cui non può che corrispondere una risposta pronta e adeguata. Il Vecchio Continente deve ringiovanire se vuole avere un ruolo negli anni a venire delle potenze ruggenti. I dati dell’Ocse dicono che tra venti/venticinque anni nessuna nazione europea farà più parte delle prime sette potenze globali. L’ultima a uscire dal consesso del G7, dove si decidono i destini comuni, sarà naturalmente la Germania. Ma alla fine dovrà anche lei cedere il posto a nuovi entranti freschi e combattivi.
Che ne sarà allora del mercato più ricco del mondo? Quale destino devono attendersi i tanti piccoli partecipanti se non troveranno il modo di rendere vera e convinta la loro Unione? Per quanto tempo si potrà difendere il benessere, il modo di vivere, la cultura di quella che viene a ragion veduta considerata la culla della civiltà?
Con il pragmatismo tipico degli uomini d’impresa Vincenzo Boccia e Goffroey Roux de Bézieux sanno che occorre fare di necessità virtù, che non è indispensabile amarsi, ma che imparare a volersi bene può essere utile a difendere le ragioni di ciascuno e di tutti. E poco importa se esistono e resistono vedute diverse su temi specifici. La presenza e l’esposizione mediatica dei rispettivi ministri dell’Economia, Giovanni Tria e Bruno Le Maire, appartengono a questa logica rassicurante ed esemplare: individuiamo i punti di contatto e gli interessi comuni, concentriamo su di essi l’attenzione, regoliamo con il massimo di buon senso quello che resta fuori.
Il presupposto di questa visione è che occorre collaborare per creare campioni industriali così grandi e strutturati da poter competere alla pari con i concorrenti americani, cinesi, russi, indiani e in un prossimo futuro africani, perché la scala dei rapporti si è andata ampliando e il vecchio mondo antico non esiste più.
Per riuscire nell’intento c’è bisogno che la politica sia disposta a crescere all’altezza dell’economia e ne sia capace. Il gigante economico europeo è oggi guidato da un pigmeo politico e da questa circostanza dipende la vulnerabilità della nostra condizione e l’urgenza di porvi rimedio mettendo da parte egoismi e convenienze elettorali. Il punto centrale è decidere se continuare a essere protagonisti del nostro destino tutti insieme come europei – rivalutando le tradizioni comuni e le stesse radici – o rompere le righe e metterci separatamente al traino o al servizio di qualche potenza compiacente entrando in un nuovo Medioevo. È già accaduto.