Alimentari e bevande continuano a correre, nonostante la crisi. L’incoraggiante indicazione arriva dal Forum organizzato il 4 e 5 giugno in Valtellina da The European House – Ambrosetti, che ha chiamato manager e imprenditori a un confronto su opportunità e criticità di un settore che in Italia vale 146 miliardi di euro e coinvolge quasi 55 mila imprese.
A confermare che lo shock economico causato dal Covid-19 non ha compromesso lo stato di salute del Food & Beverage i dati emersi da una ricerca condotta tra marzo e aprile 2021 tra i vertici delle aziende del comparto: l’indagine sottolinea infatti come nel 2020 il Coronavirus abbia determinato risvolti positivi per i conti di oltre 7 aziende su 10. Una percentuale che, pur ridimensionata al 56%, resta molto significativa anche nelle stime relative al 2021. Per il settore, del resto, l’anno in corso si prepara a chiudere con un aumento di fatturato complessivo del 2,1%, che lo proietta verso un giro d’affari pari a 152 miliardi di euro.
Il volàno delle esportazioni
Un ottimo risultato, dunque, cui ha senza dubbio contribuito l’apporto dell’export, che nel 2020 ha superato il valore record di 46 miliardi di euro. E che potrebbe, in prospettiva, regalare molte più soddisfazioni. Il F&B tricolore è infatti fanalino di coda tra le big d’Europa: meglio di noi fanno Spagna (54,8 miliardi), Francia (62,5) e soprattutto Germania (75,2). C’è quindi spazio per crescere, dal momento che le nostre produzioni hanno tutte le carte in regola per conquistare altre quote di mercato. “Il valore medio delle esportazioni italiane – spiega Valerio De Molli, Managing Partner e CEO di The European House – Ambrosetti – è più alto rispetto alla media europea. E questo denota l’elevata qualità dei prodotti venduti: un plus su cui si può e deve puntare. La Cina poi non figura nella lista dei primi dieci Paesi destinatari delle esportazioni tricolore: un’assenza di peso che peraltro avvantaggia gli altri principali attori europei, per i quali il Celeste Impero è uno dei principali mercati di sbocco per le proprie produzioni alimentari”.
E a questo si aggiungano le importantissime potenzialità che possono provenire dalla lotta all’italian sounding, quel fenomeno che prevede l’uso di parole, immagini, combinazioni cromatiche, riferimenti geografici, marchi evocativi dell’Italia per promuovere e commercializzare prodotti che in realtà italiani non sono. “Il Made in Italy – nota De Molli – vale più di 146 miliardi di euro. Ma di questi ben 100 non sono realizzati dalle nostre imprese”. Il che significa, in buona sostanza, che la produzione tricolore avrebbe la possibilità di arrivare a triplicare le vendite.
I nodi da sciogliere
Fin qui le buone notizie. L’agroalimentare deve però affrontare anche alcune importanti criticità. Che, se ben affrontate, potrebbero pure rivelarsi fonti di inattese opportunità.
Tra le più significative, c’è la sfida imposta dalla sostenibilità, che oggi chiama a un ripensamento profondo e radicale delle strategie tanto delle aziende quanto, più a valle della filiera, delle insegne distributive. “Non deve più essere interpretata e percepita come un costo, ma come un investimento per la costruzione di un mondo nuovo”, è l’appello lanciato da Marco Pedroni, Presidente di Coop Italia, rinnovato sul fronte istituzionale anche dal Presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana: “Le aziende devono vedere nello sviluppo green non solo una necessità, ma soprattutto un’occasione di crescita”.
In questo percorso, sarà nevralgica una corretta ed efficace gestione della comunicazione, così da trasferire al consumatore il valore aggiunto di prodotti realizzati nel rispetto dei principi green. Come pure nel rispetto dei dettami richiesti da un’alimentazione sana e corretta. “L’informazione deve e dovrà quindi puntare sulla chiarezza – avverte Francesco Pugliese, A.D. di Conad – e non sulla semplificazione, come per esempio avviene nel caso delle etichette a semaforo”.
Nodale è poi il tema del posizionamento di prezzo dei prodotti Made in Italy. Gli operatori del settore su questo punto sono sostanzialmente concordi: le nostre eccellenze non possono competere nell’agone internazionale in termini di quantità, quanto piuttosto in termini di qualità. Una sfida che agricoltori e industria sembrano pronti a raccogliere sotto il profilo produttivo. A latitare è invece il complessivo fronte infrastrutturale, dove il nostro Paese sconta ancora importanti lacune rispetto al contesto europeo. “L’agroalimentare italiano – è l’appello di Ettore Prandini, Presidente di Coldiretti – necessita di un sistema logistico solido e integrato, che consenta alla nostra filiera di misurarsi ad armi pari con altri Paesi dell’Unione. Purtroppo però la realtà dei fatti è lontana da questo presupposto. Faccio un esempio concreto: oggi le procedure di sdoganamento di un container imposte in un porto italiano richiedono tempi molto più lunghi rispetto a quelli richiesti in uno snodo centrale come Rotterdam. E questo svantaggia l’Italia, imponendo maggiori tempi di consegna delle merci e costi più elevati. È quindi urgente intervenire per colmare i gap che ancora affliggono il nostro Paese. E proprio in questa prospettiva, Coldiretti sostiene il potenziamento di almeno quattro bacini portuali, che geograficamente risultano funzionali per le industrie alimentari. Si tratta di Trieste, Ravenna, Salerno e Civitavecchia. E alla lista potrebbe aggiungersi anche Gioia Tauro”.
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