Una reazione straordinaria, superiore alle attese. Così i grandi gestori, Vanguard in testa, hanno commentato la reazione delle Borse europee all’annuncio del vaccino messo a punto da Pfizer e dalla tedesca BioNTech che si è tradotto in un aumento del 5% degli indici azionari europei in tre giorni. Un balzo favorito dalla grande liquidità in circolazione, alla ricerca di impieghi profittevoli sui listini. Una reazione forse eccessivamente entusiasta nella lotta alla pandemia e che contrasta con lo stato di crisi che regna nelle imprese di piccole e piccolissime dimensioni, ovvero il cuore dell’economia italiana che prima di sintonizzarsi con la realtà post-Covid dovrà scontare gli effetti della seconda ondata dell’epidemia, per alcuni aspetti anche più forte della prima, che condizionerà l’esistenza almeno fino al giro di boa di fine anno o anche oltre, nel cuore dell’inverno.



Eppure la partita della ripresa dei prossimi anni si gioca già adesso su molti terreni, a partire dalla capacità di saper dotare le imprese, specie quelle piccole, dei capitali necessari per ripartire senza provocare un’esplosione del loro debito o, peggio, dell’usura che anticipa la crescita dell’economia criminale.



La ricapitalizzazione delle imprese potrà peraltro contar su un prezioso propellente, ovvero i capitali messi a disposizione dall’Unione europea (cinque volte tanto quanto investito nel Piano Marshall) per finanziare il Next generation Eu, il piano che peraltro impone una sfida senza precedenti alle imprese e ai loro consulenti finanziari (a partire dalle banche) che andranno misurati secondo il metro delle politiche ambientali e del digitale. Insomma, non si tratta solo di riaprire i vecchi stabilimenti o di tirare avanti come se nulla fosse successo, bensì di rilanciare l’economia con modelli adeguati a una società che si è abituata a lavorare in remoto e a sfruttare i vantaggi del digitale. Una sfida che richiede un’alleanza forte tra pubblico e privato simile a quella che ha accompagnato altre fasi del decollo della società italiana, dagli anni del boom alla crescita dei distretti, ancor oggi il segmento più solito del made in Italy.

È maturo il Paese per una sfida del genere? Difficile essere ottimisti, anche se qua e là segnali di crescita della classe dirigente non mancano. Pochi, talvolta isolati e sepolti dalle beghe quotidiane. Ma comunque presenti. E necessari per aiutare il passaggio dalla fase degli aiuti basati sulla liquidità a un intervento che scongiuri la crescita dell’indebitamento che minaccia di azzoppare l’industria italiana con almeno tre conseguenze nefaste: 1) la riduzione della capacità d’investimento delle imprese; 2) la riproposizione del problema dei crediti deteriorati e delle sofferenze bancarie; 3) l’accelerazione del declino della produttività totale dei fattori delle imprese italiane.

Inoltre, la contrazione dei ricavi aziendali che si è verificata nella stagione dei lockdown comporta non solo problemi di liquidità, ma anche ingenti perdite ed erosione patrimoniale. Il rischio, secondo studi recenti, è che, per effetto della caduta dei ricavi e delle perdite conseguenti, le imprese con patrimonio netto negativo salgano dal 6% di fine 2019 al 12% mentre l’esposizione debitoria si avviti in una spirale drammatica. Certo, per effetto delle misure introdotte dal Governo, una parte cospicua della maggiore esposizione debitoria verso le banche sarà garantita dallo Stato. Ma per evitare la trasmissione della crisi al settore bancario e alla finanza pubblica, sarebbe opportuno prevedere un intervento straordinario di ricapitalizzazione e riequilibrio patrimoniale delle imprese, capace di innescare i processi di ristrutturazione e aggregazione auspicati da anni e oggi ancora più urgenti.

Chi può promuovere in intervento di questo tipo? Senz’altro la partita deve coinvolgere la Cdp, ma è importante non si limiti alla fascia medio-alta del tessuto produttivo, e che coinvolga, oltre alla mano pubblica banche e investitori istituzionali come Banca europea degli investimenti, fondazioni ex bancarie, fondi pensione, fondi d’investimento. Gli asset così conferiti potrebbero rappresentare la base di un intervento di politica industriale a lungo termine per fare di uno o più fondi lo strumento per l’innovazione attraverso un co-finanziamento pubblico (non a fondo perduto), da distribuire nei processi di ricostruzione del tessuto produttivo italiano secondo logiche di mercato. Un’impresa ambiziosa ma non temeraria. Come si addice ai tempi di crisi. Meglio, comunque, che adagiarsi nell’immagine del declino.