Il 5 luglio Istat ha pubblicato un documento di valutazione di due manovre fiscali che incideranno sul bilancio delle imprese e ne ha simulato l’impatto usando i dati in suo possesso sui circa un milione di società.
La prima manovra riguarda il lavoro: le imprese che fanno nuove assunzioni a tempo indeterminato possono dedurre il costo del lavoro aggiuntivo con una maggiorazione del 20%, che sale al 30% se si assume in fasce svantaggiate. In parole semplici, più assumi a tempo indeterminato, meno tasse paghi. La riduzione del cuneo fiscale a carico del datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato varrà circa lo 0,9% di riduzione del cuneo fiscale all’anno e circa l’1,3% per chi assume svantaggiati.
Secondo i dati di Inps, la prospettiva di durata di un contratto a tempo indeterminato è di circa 7,6 anni. Tuttavia, stima Istat, le decontribuzioni sono depotenziate per alcune categorie rispetto al 2023, in particolare per l’assunzione di giovani, mentre con i prossimi sgravi Ires le piccole imprese del Nezzogiorno potranno risparmiare il 5% sul costo del lavoro assumendo giovani.
La notizia è buona in parte: le società che potranno beneficiare della deduzione sono il 5,6% del totale. Insomma, un beneficio che va verso i piccoli del Sud e per poche altre imprese, con il grosso che non ne farà uso. Sul mercato del lavoro questa misura difficilmente avrà un grosso impatto, visto che mette soldi su un contratto, il contratto a tempo indeterminato, che al momento va bene da solo, senza incentivi.
L’altra misura riguarda invece l’eliminazione dell’Aiuto alla crescita economica (Ace). Si tratta un incentivo alla capitalizzazione, che dava un beneficio fiscale a chi reinveste gli utili nella propria impresa piuttosto che cercare prestiti sul mercato.
In 10 anni l’Ace è stato molto efficace, spostando molte imprese su livelli più adeguati di capitalizzazione. Le imprese che hanno beneficiato della detassazione degli incrementi del capitale proprio sono quelle innovative, sia della manifattura sia dei servizi, le imprese di minore dimensione (con fatturato fino a 2 milioni di euro) e le imprese “a rischio”. Le imprese che perderanno i benefici dell’Ace sono il 25,3% del totale, con impatti negativi più elevati nelle industrie manifatturiere estrattive e dell’energia, e nelle imprese esportatrici.
È comprensibile che la necessità di non incidere troppo sul debito pubblico porti a scelte di redistribuzione: togliere con una mano e dare con l’altra, cercando di dare un segnale di cosa si vuole: più lavoro. Ma assieme le due manovre danno anche due segnali contrastanti: più capitale proprio non significa meno lavoro, ma più stabilità finanziaria. Accumulare capitale proprio consente alle imprese di crescere e investire, e a sua volta di creare lavoro di qualità migliore. Accrescere la tassazione spinge le imprese verso il mercato dei capitali (ma questo non era il Governo che doveva punire gli extra profitti delle banche?). Una nuova alleanza fra capitale e lavoro forse non passerà dal bilanciamento fiscale, ma da un obiettivo da condividere anche con il Governo: far crescere educazione e competenze, ma questa è un’altra politica.
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