Nel corso di un’audizione alle commissioni Finanze di Camera e Senato il capo del servizio assistenza e consulenza fiscale di Banca d’Italia ha dichiarato che “dati i vincoli del nostro bilancio pubblico, un maggiore prelievo sul possesso di immobili per finanziare un minor carico sui fattori produttivi potrebbe rappresentare un’opzione di riforma favorevole alla crescita”. La riforma del fisco con l’obiettivo di ridurre le imposte sul lavoro e rivedere le tasse sugli immobili è un tema di cui si discute da anni; in Italia il valore del patrimonio abitativo è di circa 6.000 miliardi di euro e una revisione contenuta delle aliquote può ottenere effetti sistemici. Oltretutto il tasso di possesso delle prime case in Italia è uno dei più alti dell’Europa occidentale per una preferenza culturale molto radicata. Il tema, quindi, è particolarmente sensibile sia dal punto di vista del fisco, sia da quello politico perché una modifica toccherebbe una fetta di popolazione molto superiore a quella di tanti altri Paesi.
Queste discussioni, che si ripresentano ciclicamente da anni, avvengono in un contesto particolarissimo. Oggi si confrontano con due fenomeni: il primo sono le conseguenze economiche dei lockdown; il secondo è il ricorso da parte dell’Italia ai fondi europei con le relative condizionalità. L’erogazione dei fondi “dell’Europa” è condizionata al rispetto di parametri di deficit e debito. Se l’Italia scoprisse tra un paio d’anni che la flessibilità sul rientro non è quella sperata si porrebbe il problema, da e nei confronti dell’Europa, di come rientrare in un’economia che non sarà quella del 2019, ma quella post-Covid con il suo strascico di attività chiuse e disoccupati. La riforma del fisco innesta un circolo virtuoso se il numero di persone attive sul mercato del lavoro non scende o addirittura aumenta. Per molte persone un’aliquota sul fisco più bassa in tempi di disoccupazione, cassa integrazione o tagli dello stipendio non è una notizia particolarmente positiva e di certo non compensa la revisione, in senso peggiorativo, delle tasse sulla prima casa in cui bisogna pur continuare ad abitare anche da disoccupati. Tassare la prima casa assicura una forza di imposizione delle tasse estremamente efficace e molto superiore a qualsiasi altro mezzo soprattutto in un Paese con le caratteristiche socio-economiche dell’Italia.
Non si comprende perché si debba mettere a tema una riforma della tassazione della prima casa in una fase in cui centinaia di migliaia di persone non hanno più alcuna forma di reddito e non ce l’avranno per un lungo periodo di tempo. Neanche volendo si può lavorare e quando la tua attività, per esempio di pizzaiolo, chiude e arriva la crisi e ricollocarsi è complicato. Dal punto di vista dell’Europa, invece, questa riforma ha molto senso perché diventa uno strumento di imposizione sugli italiani estremamente efficace, semplice e reattivo. Basta una piccola modifica di un’aliquota per avere immediatamente un incremento di gettito e pazienza se molti dovranno fare il possibile e l’impossibile per farvi fronte.
Così si delinea questo scenario certamente fantascientifico: i soldi dell’Europa non sono né gratis, né dell’Europa sono solo una gigantesca partita di giro garantita dai soldi degli italiani ma su cui non decidono più gli italiani ma “l’Europa”. L’Europa è quell’organismo sovranazionale in cui i “voti” non si contano ma si pesano e quello dell’Italia pesa pochissimo dopo due decenni di europeismo senza capo né capo né coda a differenza di quello altrui. Per l’Europa si apre questo problema: come obbligare gli italiani a saldare la partita di giro in un’economia devastata? La risposta forse sta nella “riforma del fisco” in senso favorevole ai redditi da lavoro anche se in un mondo in cui c’è pochissimo lavoro. Mentre gli immobili, come noto, in Italia non si buttano mai via e anzi si tramandano di generazione in generazione forse come risposta a una certa sfiducia nei confronti dello “Stato centrale”.
Speriamo con tutto il cuore che il nostro scenario fantascientifico sia solo un brutto incubo.