Nell’attesa delle decisioni di politica monetaria che oggi prenderà la Federal Reserve, ieri è stato diffuso il dato sull’inflazione negli Stati Uniti a novembre, che ha fatto segnare un +0,1% su base mensile e un +3,1% tendenziale, superiore al +3% atteso, ma inferiore al +3,2% del mese precedente. Come evidenzia l’economista Domenico Lombardidirettore del Policy Observatory della Luiss ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, “i dati appena pubblicati avvalorano la crescente stabilizzazione del quadro inflattivo negli Stati Uniti. Sempre a novembre, l’inflazione core si è attestata al 4%, lo stesso dato di ottobre. Tuttavia, il medesimo indicatore espresso in ragione d’anno nei sei mesi che terminano a novembre è stato pari al 2,9% rispetto al 5,1% del semestre precedente. Nel complesso, l’inflazione continua a ridursi, anche se la velocità a novembre è stata assai moderata. Allo stesso tempo, il mercato del lavoro si è stabilizzato sui livelli pre-pandemici: a novembre sono stati creati 200mila nuovi posti di lavoro, ci sono stati mezzo milione di nuovi ingressi nella forza lavoro e il tasso di disoccupazione è sceso al 3,7% dal 3,9% di ottobre. Se qualcuno auspicava un soft landing, tutto sommato non poteva immaginare una batteria di dati migliori. Proprio per questo, è assai probabile che oggi la Fed reiteri la pausa nei tassi”.



Comparando la situazione economica di Usa ed Eurozona si sta allargando il divario tra le due sponde dell’Atlantico?

Sì, le prospettive vanno divaricandosi. Le previsioni di crescita tendono a comprimersi e gli indicatori congiunturali a corroborarle. L’Italia sta facendo assai meglio della Germania, ma la spinta non potrà durare a lungo se l’economia tedesca non riparte.



Cosa possiamo aspettarci, invece, dalla riunione del Consiglio direttivo della Bce in programma domani?

È molto probabile che il Consiglio direttivo opti, anche in questo caso, per una pausa alla luce dei recenti dati sull’inflazione e del deterioramento delle prospettive congiunturali. Tuttavia, occorre monitorare la posizione del Consiglio sulle politiche di riacquisto dei titoli di Stato sotto l’egida del Pepp. I segnali che si avvertono è che a breve potrebbe esserne anticipata la cessazione, originariamente prevista per la fine del 2024. La cessazione anticipata sarà preceduta da una fase, della durata di qualche mese, in cui si applicherà una riduzione nel ritmo dei riacquisti.



Sia per quanto riguarda la Fed che la Bce si tratta dell’ultima riunione del 2023. Si può già fare qualche previsione sulle mosse delle Banche centrali nel 2024, un anno elettorale sia negli Usa che in Europa?

Il dibattito ora si è spostato sul timing dei tagli ai tassi che i mercati finanziari stimano, per la Fed, a cavallo tra il primo e il secondo trimestre del prossimo anno. È indicativo che l’aumento nei rendimenti di mercato osservati sino a poco tempo fa si è dissipato lasciando spazio, piuttosto, a una loro riduzione. In altre parole, è ricominciata la pressione dei mercati sulla Fed per ridurre i tassi di intervento. Per quanto riguarda la Bce, la riduzione dei tassi dovrebbe avvenire a partire dal secondo trimestre del prossimo anno, dopo la Fed. È indicativo che Isabel Schnabel, il membro tedesco della Bce ritenuto il pivot in seno al Consiglio direttivo, abbia manifestato un approccio pragmatico al riguardo in una sua recente intervista.

Nelle trattative in corso sulla riforma del Patto di stabilità è emersa anche la possibilità che per un “periodo transitorio” si tenga conto degli effetti che gli alti tassi di interesse hanno sul costo del servizio del debito. Cosa ne pensa?

Ci stiamo avvicinando a una soluzione di compromesso sulla riforma del Patto, ma non ritengo si possa prescindere da un approccio che riconcili, in modo strutturale, sostenibilità fiscale e crescita, come peraltro richiesto dal ministro Giorgetti nella sua recente audizione parlamentare.

A fronte di questa “concessione”, potrebbe essere richiesta una “riduzione minima garantita” annua del debito/Pil e si parla anche della possibilità che i Paesi più indebitati debbano tenere il rapporto deficit/Pil entro l’1,5% e non il 3%. Tenuto conto che il “periodo transitorio” dovrebbe durare fino al 2027, dopo non si avrebbero regole di fatto ancora più stringenti delle attuali?

Credo che la lezione più importante sull’inefficacia del Patto nella sua originale formulazione era proprio nel prevedere dei paletti quantitativi con frequenza annuale difficilmente realizzabili che gli Stati membri non hanno rispettato, compromettendone irrimediabilmente la credibilità. Occorre avere il coraggio di riconoscerlo.

(Lorenzo Torrisi)

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