Il film In campo per la vittoria (2005) ripercorre la vittoria della nazionale Usa contro l’Inghilterra ai Mondiali di calcio in Brasile nel 1950. L’ho scelto perché il calcio è per me lo sport più bello del mondo e a vederlo com’è ridotto ora mi viene nostalgia di quando mettevamo delle pietre per delimitare i pali della porta e giocavamo finché eravamo stanchi o la mamma del proprietario del pallone lo richiamava a casa.
Dinosauro dirà qualcuno, ma pensando agli inutili Mondiali in Qatar, alle Supercoppa spagnola e a quella italiana a Riyadh, alle scommesse dei giocatori, alla migrazione di molti atleti negli Emirati e in Cina, agli stipendi stratosferici, ai lamenti di alcuni presidenti italiani per i minor introiti dei diritti tv, al tentativo di far passare in Parlamento il decreto “crescita”, al potere dei procuratori, mi cadono le braccia e il pallone si sgonfia.
Nostalgico e arcaico direte, ognuno ha i suoi difetti e la sua storia. Ho giocato in campetti d’erba e fango, ho fatto trasferte da tifoso per la squadra di seconda categoria del mio paese, ho tifato a San Siro e per lavoro ho assistito a tante partite in Italia ed Europa. Pagato per vedere lo sport più bello del mondo. Perciò il film in questione mi ha riportato all’essenza di uno sport in cui ormai c’è solo esaltazione del business.
Nel 1950 la Federazione Calcio Usa selezionò una squadra per partecipare ai Mondiali di calcio, il primo dopo la Seconda guerra nondiale. Il soccer non era e non è lo sport nazionale americano, perciò i calciatori erano tutti dilettanti. Si parte dal quartiere Montagna di St. Louis, zeppo di immigrati italiani con la loro cultura, cibo, appartenenza alla Chiesa. Qui c’è una squadretta con dei talenti e alcuni di essi vengono selezionati per la Nazionale degli Stati Uniti. Fino a prima di partire per il Brasile non hanno divise, né abiti di rappresentanza, l’allenatore è solo un selezionatore, in campo abbiamo quello vero, anzi due leader, Frank Bello (Gerard Butler), portiere, ma non è la macchietta di Sly Stallone in Fuga per la vittoria, e Walter Bahr (Wes Bentley), difensore. Insieme sono i due perni della squadra che rendono possibile la coesione in campo e fuori.
Ci sono le storie umane di alcuni giocatori, uno che non voleva volare per paura, un altro che si doveva sposare e il suocero anticipa il matrimonio, un lavapiatti che è un fenomeno, ma è nero e siamo nel 1950. Importante è il gruppo e l’amicizia che si crea all’interno della squadra.
Un giovane cronista incontra l’anziano giornalista e scrittore Geoffrey Douglas, unico rappresentante statunitense della carta stampata ai Mondiali (tra l’altro a sue spese) e da lì inizia il racconto fino al Miracolo di Belo Horizonte, dove gli Usa sconfissero l’Inghilterra per 1-0 con un gol di testa di Joe Gaetjens, il nero di cui sopra che era di origine haitiana.
Un’impresa inaspettata contro una squadra professionistica di alto valore tecnico, dove il calcio era nato. A ben vedere l’Inghilterra ha disputato nella sua storia un’unica finalissima, in casa nel 1966, vincendola alla maniera della Rubentus ed è arrivata quarta in due manifestazioni. Un film semplice, con azioni di gioco riprese bene, una rievocazione che esalta le origini della genuinità del calcio.
Qualcuno ha criticato il poco approfondimento di alcuni personaggi, ma quelli fondamentali ci sono e poi ricordo che il titolo originale è The game of their lives, esemplificativo del focus del film. Un pò esagerata è l’esaltazione dell’onore statunitense.
Ritornando a bomba, c’è un’esasperazione in questo sport che ha portato a fondare migliaia di scuole calcio in Italia da cui i vivai delle squadre professionistiche dovrebbero attingere, invece essendo ormai puramente business comprano tanti giocatori giovani stranieri. Aggiungiamoci le mire dei genitori che vedono dagli spalti (litigando) il miraggio dei cospicui ingaggi in una squadra di serie A e… il pallone si sgonfia.
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