Prima della guerra il 50% degli israeliani riteneva che si dovesse prendere in considerazione l’ipotesi della creazione di uno Stato palestinese. Oggi, secondo alcuni sondaggi, l’80% dell’opinione pubblica non sarebbe ostile all’idea della fuoriuscita almeno di una grande parte dei palestinesi dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania. L’attacco del 7 ottobre ha cambiato l’approccio della gente alla questione palestinese, spingendola a prendere in considerazione una posizione che prefigura uno dei possibili effetti dell’operazione militare disposta dal governo Netanyahu: l’allontanamento dei palestinesi dalla loro terra.
Il destino del premier continua a sembrare segnato, tanto che più nessuno lo vede nel dopoguerra alla guida del Paese, ma il modo di reagire al devastante attacco di Hamas di quasi tre mesi or sono fino a qui è sostanzialmente condiviso dall’opinione pubblica. Il governo, però, spiega Filippo Landi, già corrispondente Rai da Gerusalemme e poi inviato del Tg1 Esteri, non è riuscito, come invece aveva promesso, a liberare gli ostaggi attraverso la sua azione militare e ancora oggi teme che eccessive perdite tra i suoi soldati, finora quasi 200 unità, possano far cambiare idea alla popolazione sul conflitto.
Come sta affrontando Israele questa fase della guerra: l’opinione pubblica sostiene comunque il governo Netanyahu o ci sono anche manifestazioni di dissenso rispetto al suo operato? E la classe politica è compatta al suo fianco?
Per capire la situazione bisogna partire da un primo elemento rilevante: governo e comandi militari sono stati sempre molto avari di notizie sulle conseguenze che la guerra sta avendo sui soldati israeliani. Le prime notizie delle vittime sono state di fonte giornalistica, solo parzialmente confermate dai comandi militari. I soldati morti sono quasi 200. Ma va tenuto in considerazione anche il numero dei feriti. Le prime stime di fonte giornalistica parlavano di 5mila militari: l’esercito intervenne per dire che erano 1.500. Le ultime cifre, non verificate, parlano di 20mila soldati feriti, in modo più o meno grave.
E poi?
Nella storia israeliana è importante la comprensione di queste cifre: nell’ultima guerra combattuta, nel 2006, L’opinione pubblica cambiò idea quando il numero accertato dei morti fra i militari superò quota 100. La gente in Israele è molto sensibile a quante persone muoiono in un conflitto. È vero che il punto di partenza ora è di 1.150 morti, di cui 350 tra appartenenti a forze armate e forze dell’ordine, uccisi il 7 ottobre, ma quello che sta accadendo non può restare inosservato. Le autorità israeliane sono molto restie a fornire questi dati forse perché temono le conseguenze di una loro divulgazione.
È vero che per ragioni di maggiore trasparenza, ultimamente l’esercito ha diffuso contenuti più realistici sul conflitto?
Sì, infatti in questi giorni per la prima volta la censura militare israeliana ha consentito alle tv di trasmettere i primi video di combattimenti dall’interno di Gaza: mostrano soldati che si sentono minacciati e in pericolo di morte. Immagini differenti da quelle viste fin qui di militari che avanzavano senza che nessuno mettesse a rischio la loro incolumità. Il video dura tre minuti e mostra una grande difficoltà ad avanzare per le truppe dell’IDF.
Non un video di propaganda, insomma, ma corrispondente alla realtà?
Un video che si avvicina a quelli che ha mostrato Hamas, nei quali si vedono blindati colpiti dai lanciarazzi RPG. Finora c’era uno iato tra queste immagini e quelle trasmesse dagli israeliani. Questo ultimo video fa capire che il numero dei morti e dei feriti è abbastanza alto, perché sul campo di battaglia le difficoltà ci sono.
Il secondo elemento da tenere in considerazione, invece, qual è?
A dispetto delle tante affermazioni del ministro della Difesa e del comandante dell’esercito, l’azione militare non ha prodotto la liberazione neppure di un ostaggio. Anzi, ha provocato direttamente la morte di tre di loro e di numerosi altri indirettamente. Un elemento che ha un suo peso: l’opinione pubblica accusa il governo di essere incapace di mantenere le promesse. Il problema degli ostaggi, più di 100 dei quali sono stati liberati nel corso della tregua, ha un impatto sull’opinione pubblica israeliana ben al di là del numero delle famiglie che sono coinvolte. Questi due elementi, quello delle vittime e dei feriti tra i soldati e quello delle mancate liberazioni, peseranno sul prosieguo del conflitto.
Ma nell’opinione pubblica israeliana ci sono pareri diversi sulla strategia che bisognerebbe perseguire nella guerra? Sono tutti d’accordo con il governo o emergono anche posizioni diverse?
Negli ultimi anni il numero di persone che secondo i sondaggi erano favorevoli a un accordo di pace che portasse alla nascita di uno Stato palestinese era intorno al 50%. Adesso i sondaggi dicono che se si riuscisse ad allontanare la stragrande maggioranza dei palestinesi da Gaza e Cisgiordania le persone d’accordo sarebbero molte di più, secondo alcune rilevazioni addirittura tra il 70 e l’80%. L’idea di completare la guerra del 1948 con la conquista di tutti i territori, dal Mediterraneo al Giordano, dal Libano all’Egitto, che prima era appannaggio della destra, adesso sembra coinvolgere un numero molto più ampio di persone.
Ma questo significa anche un sostegno alla linea di Netanyahu?
No. Netanyahu rimane la persona più screditata agli occhi dell’opinione pubblica, è la guerra così come si sta svolgendo, spingendo di fatto verso l’espulsione dei palestinesi, che comincia a sfondare sul piano dell’opinione pubblica. Non è un’approvazione del primo ministro: nessuno lo dà ancora sulla sua sedia dopo il conflitto. Questo mostra un cambiamento nella società israeliana che era in atto da tempo, da decenni: per questo nelle elezioni del 2022 i partiti della destra sionista-religiosa, guidati da Smotrich e Ben Gvir, per la prima volta hanno avuto un consenso molto rilevante.
All’interno del governo attualmente quali sono i rapporti di forza? Ci sono delle visioni differenti o comunque vengono mantenute sotto controllo per continuare l’operazione militare?
L’ipotesi di una sostituzione di Netanyahu con Gantz, unico dell’opposizione a entrare nel governo cosiddetto di unità nazionale, è durata 24 ore. Gantz non vuole sostituire Netanyahu perché si rende conto che la maggioranza parlamentare non accetterebbe questo cambiamento. Sa che nella coalizione il ministro delle Finanze e viceministro della Difesa Smotrich ha un grande impatto politico: l’ultimo suo atto è il rifiuto di dare all’ANP i soldi che dovrebbero essere consegnati da Israele in quanto collettore dei dazi doganali anche per conto dei palestinesi stessi. Soldi che non finiscono ad Hamas ma che, se non arrivano, possono determinare il discredito dell’ANP, che si trova senza liquidità per pagare pensioni e dipendenti pubblici. Parliamo della stessa Autorità che secondo la Casa Bianca dovrebbe prendere in mano le redini della costituzione di uno stato palestinese.
Nell’esecutivo quali sono i punti sui quali c’è maggior attrito?
Uno degli elementi è di considerare con più attenzione le richieste che di tanto in tanto vengono dagli USA riguardo all’uso dei bombardamenti contro la popolazione civile palestinese: alcuni ritengono che non ci possa fare continuamente beffe degli inviti americani, perché il rischio è di non ricevere sempre e comunque quegli aiuti di cui Israele ha bisogno. Detto questo non mi sembra che questa divergenza abbia prodotto problemi eccessivi ai militari nella conduzione della loro offensiva. Gli israeliani, d’altra parte, hanno in Blinken un appoggio che non manca mai. È vero che non c’è accordo tra democratici e repubblicani sull’entità dei finanziamenti, ma è altrettanto vero che recentemente il segretario di Stato con il tema dell’urgenza ha fatto dare altri finanziamenti a Israele.
L’opposizione rimasta fuori dal governo di unità nazionale riesce a farsi sentire?
Lapid, capo del principale partito di opposizione, non è entrato nel governo: un atto di rilievo. Le sue critiche hanno come bersaglio Netanyahu, mai la conduzione della guerra. L’unico elemento pertinente al conflitto è consistito nel sottolineare come il primo ministro non sia stato capace di liberare gli ostaggi per via militare, riproponendo quello che viene detto dalle famiglie degli ostaggi e cioè che bisogna trattare con Hamas, indipendentemente dagli obiettivi finali del conflitto.
(Paolo Rossetti)
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