Lugo di Romagna è uno dei luoghi più colpiti dall’alluvione del maggio scorso. E don Leonardo Poli, parroco della Collegiata dei santi Francesco e Ilaro, vive lì. Proprio lui in quei drammatici momenti è stato testimone della gara di solidarietà che si è scatenata per aiutare le persone in difficoltà per i danni provocati dall’acqua. Una situazione nella quale la gente ha dato il meglio di sé, costruendo legami autenticamente umani, a volte anche riprendendo a parlare con persone con le quali si erano troncati i rapporti da tempo.



Don Leonardo ne parlerà oggi al Meeting nell’incontro “Un’amicizia in piena. Una solidarietà che ricostruisce” al quale parteciperà, tra gli altri, anche il commissario straordinario alla ricostruzione Francesco Paolo Figliuolo.

Don Leonardo, un fatto drammatico come l’alluvione si è trasformato anche in un’occasione di amicizia e solidarietà. Cosa può raccontare da questo punto di vista della sua esperienza a Lugo, come la gente ha trovato le motivazioni per lasciarsi alle spalle i danni del fango?



Arrivano dei momenti in cui la realtà si impone e allora emerge il cuore dell’uomo, che è fatto veramente bene ed è fatto per il bene. Ma questo lo fa emergere la realtà quando la guardiamo in faccia o ci costringe lei a farci i conti. E allora scopriamo che siamo veramente dei poveretti. Noi ce lo diciamo che lo siamo, ma non ci crediamo, perché ci hanno inculcato in testa che l’ideale è “l’uomo che non deve chiedere mai”. Arrivano dei momenti, invece, in cui sei costretto a chiedere, come uno che sta annegando e anche se è timido deve gridare “aiuto”. Allora arriva la risposta, che la gente è fatta per il bene. E quindi nasce questa solidarietà.



Di esempi di solidarietà in quei giorni lei ne ha avuto sotto gli occhi tanti.

Certo, penso ai 700 giovani che si sono messi insieme con una chat per andare a rispondere con le pale al bisogno ovunque ci fosse, ai venti ragazzi di Gs che per dieci giorni sono stati al palazzetto dove sono stati accolti 300 evacuati. Tutti maturandi, tra l’altro. Hanno sospeso lo studio e si sono dedicati a questo. Cambiavano i pannoloni agli anziani, facevano giocare i bambini, distribuivano i pranzi, facevano cantare la gente la sera. È stato veramente uno spettacolo. Ricordo anche altri volontari, come una ragazza anche lei maturanda, che abbiamo invitato a una convivenza di studio di quattro giorni a metà giugno e che alla fine ci ha detto: “Non avrei mai immaginato che un’alluvione e l’esame di maturità si potessero rivelare le esperienze più belle della mia vita”.

Cos’altro ci può raccontare?

C’era gente che mi diceva: “Ho perso la macchina, ma ho trovato degli amici”. Altri che abitavano nello stesso condominio e magari avevano litigato per delle banalità e da anni non si guardavano in faccia. Hanno cominciato a condividere i bisogni: una delle due famiglie è andata dall’altra offrendosi di lavare la biancheria. È rinato un rapporto. Per questo abbiamo voluto raccogliere quelle che io chiamo “le pepite d’oro in mezzo al fango”, per aiutarci a fare memoria abbiamo scritto un libro, Fatti accaduti in Romagna. Nel dramma dell’alluvione la sorpresa di un’onda di bene.

Storie che riguardano la gente del posto. E le persone che sono venute da fuori ad aiutare?

Nel palazzetto dello sport era stato allestito il centro di accoglienza per i 300 evacuati, e io sono stato là dieci giorni, mentre in parrocchia avevamo allestito la mensa per i volontari, dove tutti i giorni dalle 150 alle 250 persone, sia del posto, sia provenienti da diverse città, venivano a pranzo. E quando un giorno ho detto al sindaco “Visto che adesso c’è una cucina da campo al palazzetto anche i volontari li mandiamo là”, lui mi ha risposto: “No, come faremo a evangelizzare se li mandiamo là? È importante questo momento di pausa dove la gente si incontra, si siede, si guarda in faccia, si scambia le proprie esperienze”. È verissimo.

Cosa ha permesso di allacciare legami tra le persone?

È accaduto perché lì in parrocchia c’è un popolo, un popolo che in questi anni è cresciuto in una coscienza di sé e con uno sguardo positivo e comunicativo, contagioso, nei confronti della realtà. Alla mia parrocchia fa riferimento molta gente del Movimento (di CL, nda), a Lugo ci sono 250 adulti iscritti alla Scuola di comunità, di conseguenza siamo diventati una presenza propositiva per la città. Si sono superate le ideologie. Per questo mi ritrovo in quello che dice il Meeting, “L’esistenza umana è un’amicizia inesauribile”. Quando ci si guarda per ciò che si ha in comune e non per ciò che ci divide scattano dei rapporti propositivi impressionanti.

È stata un’occasione anche per riscoprire la fede?

Mi ha colpito molto gente che diceva: “Io non credo”. La nostra risposta è stata: “Non preoccuparti, il problema non è credere, perché è Dio che crede in noi. Bisogna guardare i segni e aiutarsi a leggerli”. Faccio riferimento in particolare a un’infermiera che diceva questo. Dopo qualche giorno mi ha scritto: “Sto vedendo dei segni, forse è veramente Lui che sta parlando. Aiutami a leggerli e non abbandonarmi”. Il cuore è come un fiammifero, quando impatta con la realtà si accende. Ma dopo un po’ si spegne, a meno che non ci sia un luogo in cui questa fiamma venga custodita e alimentata. E questo è stato possibile perché c’era un’esperienza precedente. Siamo andati in vacanza in 250 con le famiglie e c’erano 60 persone nuove. Quando le persone vedono il bene pensano che quel bene sia proprio per la loro vita. Dico sempre che il problema non è che la gente non va più in chiesa, ma che la chiesa non va nel mondo. Quando lo fa e sa intercettare le domande drammatiche delle persone e far loro compagnia dopo si accorge della risposta.

Ci racconta un’altra storia?

C’era un uomo di 93 anni che viveva in un mulino antico vicino al fiume, l’argine si è rotto vicino a casa sua e gli ha squarciato la casa. Una settimana dopo il prefetto ha dato disposizione che la casa fosse abbattuta definitivamente. Questa persona quando il presidente della Repubblica è venuto a Lugo gli ha detto: “Ho perso la casa di pietra ma non ho perso la casa di carne, cioè i miei figli e la fede. Poi sono orgoglioso che la mia casa abbia fatto una fine eroica, perché ha permesso all’acqua di deviare e in questo modo si sono salvate le case dietro al mulino”. Addirittura ha aggiunto: “Sono più fortunato degli altri: non devo neanche ripulire la casa”.

Una situazione, insomma, che al di là dei drammi e delle tragedie, ha permesso di guardare la vita con uno sguardo diverso.

Un giorno si è presentato un uomo davanti alla chiesa con un vasetto che conteneva un’erba selvatica che io, figlio di contadini, riconosco: la chiamavamo “la miseria”. Me lo dà e mi dice: “Portalo in chiesa, questa è l’unica cosa che si è salvata dal mio negozio”. E poi si è messo a piangere. E li ho capito e ho pensato: Signore, quando tendiamo a impossessarci della nostra vita cresce solo la miseria, la disperazione, quando abbiamo il coraggio di offrire a te la nostra miseria tu la trasformi in povertà. E la povertà è la posizione dell’uomo che sa farsi figlio e accetta di farsi prendere per mano e di coltivare quel seme buono che già la vita ci ha dato e che il Battesimo ci ha confermato. A noi spetta solo di riconoscerlo e accudirlo.

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