Difficile separare i fatti dalle opinioni, soprattutto quando le opinioni stesse sono fatti che cambiano il corso degli eventi. Tentiamo.
Il Brasile ha una tra le migliori leggi di protezione ambientale e forestale al mondo. In luglio, l’ente per la protezione ambientale (l’Ibama) ha fatto la maggiore operazione di controllo della sua storia, sequestrando quantità record di legname e macchinario illegale. In agosto, ci sono stati incendi nella foresta, come sempre in questo periodo dell’anno. Il pomeriggio del 19 agosto fumi di questi incendi, assieme allo scontro di due fronti nuvolosi, hanno oscurato il cielo di São Paulo.
Da quel momento è partita una campagna virale che ha avuto il suo picco nel tweet del presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, che, sotto una foto del 1989, allerta il mondo che “la nostra casa è in fiamme” e che se ne parlerà al G7.
La nostra casa brucia davvero? L’istituto di ricerche spaziali brasiliano, l’Inpe, che pochi giorni fa ha polemizzato aspramente con Bolsonaro sui dati della deforestazione, pubblica sul suo portale i dati storici degli incendi e agosto 2019 sembra essere perfettamente nella media. Se brucia, la nostra casa brucia come sempre.
Non si sono viste reazioni simili in anni più “infuocati” di questo: 2016, 2012 e 2010. Neanche quando, un mese fa, Evo Morales, il presidente della Bolivia, ha autorizzato la deforestazione di 9 milioni di ettari dell’Amazzonia Boliviana (nota a margine: il fumo arrivato su São Paulo veniva da Paraguay e Bolivia).
Cosa ha sollevato gli internauti questa volta? La risposta rapida è che ora il presidente è Bolsonaro. Sembrerebbe faziosità politica – e in gran parte lo è -, ma ci sono altri fatti che giustificano una legittima preoccupazione.
Da sempre Bolsonaro ha fatto dichiarazioni razziste sugli Indios e critiche sulle loro riserve di territorio. Creando il Governo, ha tentato di fondere i ministeri dell’Agricoltura e dell’Ambiente. Li ha poi mantenuti separati, ma passando molte competenze chiave all’Agricoltura.
In giugno, ha chiuso il COFA (Comitê Orientador do Fundo Amazônia), passandone le competenze al Governo. Il Comitê gestiva i 500 milioni di dollari che vari Stati esteri donano per preservare l’ambiente. Il 15 agosto, la Norvegia ha congelato l’invio di nuovi fondi e Bolsonaro ha reagito twittando che la Norvegia è ipocrita e dovrebbe smettere di cacciare le balene, usando però una foto scattata in Danimarca.
Poche settimane fa ha rimosso il presidente dell’Inpe per aver divulgato dati di disboscamento dell’Amazzonia a lui non graditi.
Che gli incendi siano legati al disboscamento è certo. Che aumentino per gli atteggiamenti di Bolsonaro è possibile e probabile.
Il settore agricolo, che fa quasi un quarto del Pil brasiliano, è preoccupato dei danni alla sua immagine e sta facendo pressioni sul presidente per smorzare i toni. Ieri Bolsonaro è intervenuto in televisione, con il discorso a favore dell’ambiente meno ambientalista che si possa immaginare. Ha detto che, come su tutto il fronte della legalità, il suo è un governo di “tolleranza zero” sugli incendi e che userà l’Esercito per combatterli. Ha sottolineato più volte che l’Amazzonia è parte fondamentale del Brasile e che sta sotto la sua sovranità. Ha poi posto quello che è il vero punto discriminante tra le due posizioni: “L’Amazzonia è ricchissima, ma ci vivono 20 milioni tra i più poveri del Brasile”.
Come conciliare ambiente e sviluppo? Tra ambientalismo radicale e produttivismo stupido (il 63% delle aree deforestali sono utilizzate pochissimo, il 23% sono abbandonate), nessuno nei due fronti sembra preoccuparsene.