In questi giorni si fa un gran parlare degli incendi in Amazzonia. Lo fanno i telegiornali di mezzo mondo, lo fanno i social media, ne hanno parlato i capi di Stato al G7 di Biarritz e lo ha fatto anche Papa Francesco che, nell’Angelus di domenica 25 agosto, ha invitato a pregare perché il polmone verde del mondo smetta di bruciare: “Siamo tutti preoccupati per i vasti incendi che si sono sviluppati in Amazzonia. Preghiamo perché, con l’impegno di tutti, siano domati al più presto. Quel polmone di foreste è vitale per il nostro pianeta”.



Ma cosa sta accadendo realmente? Brucia davvero tutta l’Amazzonia? È colpa del governo brasiliano che sta fomentando gli agricoltori perché conquistino nuove terre coltivabili?

Premesso che le politiche dell’attuale governo brasiliano non sono certo politiche di salvaguardia dell’ambiente, quello che accade ora in Amazzonia non è molto diverso da quello che vi accade ogni anno da parecchio tempo. Una fonte attendibile, la Nasa, ci dice che gli incendi di quest’anno nell’intero bacino amazzonico sono in linea con quelli degli ultimi 15 anni, ed il report della Fao sullo stato della forestazione del mondo ci spiega come questa sia una pratica antica.



In Sud America gli incendi ci sono, sono tanti, ma oltre che nell’Amazzonia, ce ne sono tantissimi negli stati meridionali della confederazione brasiliana, in Paraguay ed in Argentina, ben lontani dal “polmone della terra”, in aree di agricoltura intensiva ed in zone dove normalmente nella stagione secca (luglio-ottobre) i suoli sono incolti. Le cose sono state mescolate e si è fatto “d’ogni erba (bruciata) un fascio. La Bbc ha attribuito il fumo presente sulla città di São Paulo agli incendi amazzonici, senza considerare che si trova a più di 3500 km dal bacino amazzonico e che invece dal Paraguay alla costa atlantica fino a ridosso della città bruciano le stoppie delle coltivazioni, come si vede molto bene dall’immagine elaborata dal quotidiano inglese The Guardian.



È stato lanciato un allarme globale di disastro ambientale che è rimbalzato ovunque sull’imminente sparizione della foresta amazzonica. Si è innescata una reazione a catena che ha coinvolto i media di tutto il mondo occidentale, compresi quelli italiani. Ad ogni lancio della notizia è stata alzata la posta, si è resa la cosa sempre più “sensazionale”, condendo le notizie con terribili immagini di nativi amazzonici e di animali selvaggi in fuga dal fuoco. Peccato che nessuno si sia preso la briga di controllare dati facilmente accessibili come quelli citati sopra. La vicenda non è assolutamente da sottovalutare, è una situazione realmente drammatica, e proprio per questo andrebbe affrontata nel modo appropriato, cercando di capire cosa sta accadendo e quali possano essere le conseguenze di anni di pratiche simili.

L’impressione è che le questioni vengano poste con la stessa leggerezza con cui lo si fa sui social network dove, volendo parlare alla pancia delle persone, si trascurano le fonti e si va diretti all’obbiettivo da dimostrare.

Il modo in cui è stata condotta questa vicenda offre lo spunto per alcune domande.

Che valore ha la comunicazione scientifica? Che reputazione hanno le istituzioni che lavorano per raccogliere ed elaborare i dati che dovrebbero essere alla base della conoscenza scientifica?

Chi fa ricerca, “gli scienziati”, utilizza un metodo per verificare l’attendibilità delle proprie teorie e scoperte che è universalmente riconosciuto come attendibile: quello della pubblicazione dei risultati in riviste dove vengono verificati in modo del tutto anonimo dai migliori esperti mondiali del settore (peer review).

Il tramite storico tra le pubblicazioni scientifiche ed il comune cittadino è stata la divulgazione scientifica, dove le notizie più importanti vengono tradotte dal linguaggio degli addetti ai lavori ad uno comprensibile ai più. Negli ultimi tempi è accaduto qualche cosa, anche nei media tradizionali, che li ha allineati, verso il basso, al clima concitato dei social network.

Prendendo Facebook come esempio paradigmatico di un modo di porre le questioni, tutto ciò che viene detto viene assolutamente relativizzato. Ad ogni parere, ad ogni idea viene dato lo stesso valore. Anche l’informazione scientifica, quella prodotta da chi accetta di far verificare da altri la veridicità delle proprie teorie e dei propri dati, viene trattata alla stregua di un’opinione qualsiasi. La scienza può essere fallibile ma sicuramente non è democratica!

Un esempio che vale per tutti è quello delle posizioni “no-vax”, in cui evidenze scientifiche vengono poste allo stesso livello di opinioni. Talora poi queste opinioni, che fanno leva su aspetti emozionali e pietistici assieme a presunti complotti, assumono persino più valore di comprovate evidenze mediche.

Quello che è accaduto sui social con la posizione “no-vax” è accaduto in questi giorni con i roghi amazzonici. Gli ingredienti sono gli stessi, si è parlato alla pancia mostrando animali spaventati e nativi disperati, e si è trovato un “cattivo” da combattere.

Nessuna di queste “chiavi” è falsa, ma semplicemente il peso che è stato attribuito è sproporzionato rispetto a ciò che sta accadendo. Il risultato è alla fine non corrispondente alla realtà. Sarebbe stato facile verificare cosa sta realmente succedendo e che livello di “eccezionalità” hanno gli attuali roghi amazzonici; sarebbe stato però necessario consultare le fonti (immagini satellitari, dati Fao, riviste scientifiche, ecc.), le quali hanno il difetto di parlare meno alla pancia del lettore e più all’intelletto.

Ci sono precedenti illustri di “cantonate” prese fidandosi dell’aspetto emotivo delle notizie senza verificare le fonti. Emblematica è la storica messinscena di Orson Welles quando alla radio annunciò l’invasione aliena e venne creduto non solo dai radioascoltatori ma anche da molte illustri testate giornalistiche.

Gli scienziati fanno il loro lavoro, producono dati (spesso) attendibili; le persone, i cittadini comuni, si formano un’opinione sui fenomeni che è sempre mediata da chi traduce queste informazioni di nicchia in un linguaggio semplice e gliele trasmette. Molto spesso però questo passaggio viene saltato e dall’evidenza di un fenomeno (c’è del fumo in Brasile) si salta alla conclusione più emotivamente impattante.

Ma le due domande che venivano poste in precedenza come si collocano in questo scenario? A cosa serve la conoscenza scientifica se non viene utilizzata? E ancora, perché non viene utilizzata? Al di là della facile sociologia da social media e da venditori di spazi pubblicitari, il sospetto vero è che manchi un anello nella catena della conoscenza (o se c’è che sia molto debole) per andare incontro alla difficoltà di comunicazione del mondo scientifico ed alla comprensibile ricerca di scorciatoie da parte di chi questo mondo deve raccontare.