Brucia la Sardegna, brucia la Pineta Dannunziana di Pescara, brucia la Sicilia. Ma bruciano anche la Grecia, la Turchia e la Bosnia. La crisi climatica di cui parliamo da anni non ha tardato a manifestare le proprie conseguenze e, sebbene le cause dei roghi siano diverse, la circolazione atmosferica indotta dal cambiamento climatico rimane una questione determinante per il suddetto fenomeno. Le temperature raggiungono record storici, le ondate di calore sono assorbite da territori già aridi, le fiamme sospinte da forti venti caldi che le propagano senza clemenza.
E se il battito di ali di una farfalla è in grado di scatenare un uragano dall’altra parte del mondo, è facile immaginare come incendi boschivi che bruciano la vegetazione e distruggono la struttura del terreno lascino tracce sui nostri mari, oltre che sulla terra.
È noto che i cambiamenti climatici abbiano spesso conseguenze sulla distribuzione degli animali terrestri, sul loro comportamento, sulla loro sopravvivenza, e persino sulle loro dimensioni. Altri recenti studi hanno però provato a comprendere l’impatto degli incendi sui fondali marini e sulle specie che vi abitano. Lo studio multidisciplinare Spatial and temporal trends in the ecological risk posed by polycyclic aromatic hydrocarbons in Mediterranean Sea sediments using large-scale monitoring data, condotto dall’Università di Milano Bicocca e pubblicato di recente dalla rivista Ecological Indicators (Elsevier), ha provato che esiste una correlazione tra gli incendi delle aree boschive con la contaminazione dei sedimenti del Mar Mediterraneo.
Per farlo, hanno analizzato le conseguenze delle sostanze inquinanti generate dalla combustione sulle comunità bentoniche, organismi marini che vivono nei sedimenti del Mediterraneo e che rappresentano un prezioso indicatore della qualità dell’ambiente marino, oltre che un’importante fonte di cibo per altri animali.
Chi ha assistito a molti dei cambiamenti più rilevanti del nostro mare è Alberto Luca Recchi, esploratore del mare che da oltre trent’anni racconta con immagini e storie la vita degli oceani. Interpellato sul tema, forte di un’esperienza pluriennale in materia di spedizioni, condotte con i più qualificati ricercatori, ha dichiarato: “È difficile attribuire agli incendi troppe responsabilità. Nei territori del nord Australia, gli aborigeni danno fuoco alle loro terre da migliaia di anni, eppure lì davanti alle coste del nord, da Darwin a Bamaga, ci sono i fondali più belli e incontaminati del pianeta. Non vi è un solo pericolo per il mare – prosegue Recchi – ma sono tante le cause sommate insieme ad alterarne l’equilibrio: l’eccesso di pesca, la pesca distruttiva, l’inquinamento chimico industriale e da scarichi urbani, l’acidificazione delle acque, la plastica, il degrado delle coste, ecc. Il mare è il più grande bene comune dell’umanità, nessuno può fare molto per salvarlo, ma tutti possiamo fare qualcosa”.
A confermare il ruolo ormai indiscusso dell’influenza umana sul sistema climatico è il sesto rapporto dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, in cui gli scienziati forniscono ai decisori politici le ultime conoscenze acquisite sul riscaldamento globale. Lo studio, tra i cui dati più allarmanti emerge una crescita a ritmo triplo del livello dei mari rispetto al secolo scorso, mostra che le attività umane hanno ancora il potenziale per determinare il corso del clima futuro. A voler citare Dante nell’anno del suo anniversario, verrebbe da dire “Chi è cagione del suo mal, pianga se stesso”.
Anche i fattori predisponenti per la propagazione degli incendi, infatti, sono riconducibili all’azione umana e, per la precisione, a tre macro elementi: meteorologia, orografia e caratteristiche della vegetazione. Negli ultimi decenni in tutti i Paesi del Mar Mediterraneo è aumentata la frequenza di condizioni meteorologiche che favoriscono gli incendi: si è verificato un innalzamento delle temperature medie, si sono intensificati i periodi di piogge invernali e di siccità estiva, la vegetazione è abbandonata a sé stessa per mancanza di politiche di forestazione e di piani di prevenzione adeguati.
Ed è proprio il Mare Nostrum, culla della civiltà occidentale, a lanciare all’umanità un disperato urlo di richiesta di aiuto da parte del pianeta.
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