La notizia dell’incendio a San Giuliano Milanese di una fabbrica per il trattamento di rifiuti tossici, con migliaia di litri di solventi in fiamme, e la sua potenza distruttiva e intimidatoria spaventosa, ce l’ha data il cielo. Come tanti, uscivo da una stazione orientale della Metropolitana, linea gialla, quella che attraversa Milano da Nord-Ovest a Sud-Est. Ed ecco un dito nero, enorme, che dopo qualche secondo, come se appartenesse alla mano di un gigante, ha piegato la falange ungulea, indicava proprio me.



A dire la verità, a pensarci, mi sono reso conto di essere stato presuntuoso: non sono così importante da essere destinatario unico di un messaggio mistico. Poi ho capito. Quando i siti internet locali hanno cominciato a raccontare i particolari, i sei feriti di cui uno gravissimo, e l’invito della protezione civile a tenere chiuse le finestre delle case a largo raggio causa la” nube tossica” ho afferrato che quel dito che mi pareva essersi mosso verso di me, voleva togliermi la benda dagli occhi, costringermi a comprendere il segno, dissotterrando la memoria: Seveso, Icmesa, diossina, l’incubo di una polluzione assassina. Perché non impariamo niente dai disastri ecologici?



Era l’ora di pranzo del 10 luglio 1976, sabato bello, lucente. Al settimo piano dove abitavo stavamo tutti a tavola ed ecco un fiotto ventoso dall’odore tremendo come una pugnalata entrò dentro la bocca, bucava il palato, invadeva i polmoni. Una specie di possesso demoniaco. Pensai: è la guerra chimica, tra un istante siamo morti.

Ebbi il buon senso di non dirlo ad alta voce. L’istinto fu di correre sul balcone, per vedere cosa fosse, chi ci minacciasse, se ci fosse un fungo. Facemmo cioè il contrario delle istruzioni che credo siano scritte sui libretti ad uso degli svizzeri, i quali però hanno pure i bunker e noi no. Avremmo dovuto ragionare e sigillarci in casa, tirar giù le tapparelle, evitando di esporci, aspettando istruzioni, tipo quelle che ci avvertirono ai primi di marzo del 2020 di non camminare per strada, di vivere tappati tra quattro mura per evitare il virus.



Nessuno sapeva nulla, dopo un’ora, due, tre. Non c’era internet e neppure televideo. Le radio libere avvertirono che doveva essere “scoppiato il macchinario o una caldaia della fabbrica chimica appartenente alla Givaudan-Laroche, multinazionale”. Il giorno dopo nessun giornale scrisse nulla. Poi la cronaca locale di Giorno, Corriere e Giornale nuovo parlarono di polli morti, poi di un volto di bambina deturpato dalla “nube tossica”. L’area del pericolo includeva anche Desio, i miei figli furono sottoposti, il primo nato 5 anni dopo, a esami, ricoveri prolungati. Invece che vicinanza alle 300mila circa persone terrorizzate, non fu proposta amicizia, ma di evitare di far figli, avremmo messo al mondo “una lepre con la faccia di bambina”, così scrisse la compianta comunista, invitando il governo a proporre l’aborto alle donne, in realtà quasi fosse un obbligo morale: “o aborto o mostro in pancia”. Gli ecologisti volevano imporre la deportazione di mezzo milione di brianzoli.

Perché sto rievocando quei giorni? Quel dito me l’ha detto. Mi colpisce che il proprietario di questa ditta chimica d’avanguardia abbia usato le stesse parole adoperate per descrivere l’evento di 46 anni fa: “È scoppiata una macchina”. Incidente o dolo? Ipotesi si accavallano. La mafia dei rifiuti vuole togliere di mezzo un’azienda che agiva impedendo il traffico abusivo di schifezze inquinanti?

I responsabili dell’Arpa che vigilano sulla polluzione e la qualità dell’aria comunicano che quel fumo nero e tossico probabilmente è stato abbattuto o disperso da temporali e vento. Le analisi con l’uso di un aggeggio sono in corso. Dico soltanto da reduce e vittima (molto minore) della fabbrica avvelenatrice del 1976: dite tutto subito, non avvolgete gli operai e la popolazione coinvolta nella nebbia prima della negazione poi nell’esagerazione allarmistica che trasforma le persone in cavie.

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