Nella tormentata storia della gestione della pandemia da Covid-19 e delle gravi responsabilità che pesano sui decisori politici, l’attenzione mediatica oggi si è concentrata sugli ultimi ministri della Salute.

L’ex ministro della Salute Roberto Speranza e i suoi predecessori Giulia Grillo e Beatrice Lorenzin sono indagati per omissione in atti d’ufficio in uno stralcio romano dell’inchiesta della Procura di Bergamo sulla gestione del Covid nella provincia più colpita dal virus. Con loro sono stati coinvolti tutti i vertici del ministero della Salute che in quegli anni occupavano ruoli di particolare rilevanza, soprattutto nel campo della prevenzione.



Piano epidemico nazionale

La necessità di un piano pandemico era stata evidenziata già nei primi anni duemila, quando l’Organizzazione mondiale della sanità aveva osservato come i focolai di influenza aviaria da virus A/H5N1 erano divenuti endemici nei volatili nell’area estremo orientale, ed il virus aveva causato infezioni gravi anche negli uomini, creando in modo concreto e persistente un vero e proprio rischio di pandemia influenzale.



Per questo l’Oms aveva sollecitato tutti gli Stati a dotarsi di un piano sanitario-emergenziale, da aggiornare in base alle condizioni richieste da eventuali circostanze epidemiologiche e alla luce di specifiche linee guida di volta in volta dettate dalla Oms. La raccomandazione a ogni Paese da parte del massimo organismo sanitario internazionale in ordine all’adozione di un piano pandemico nazionale derivava dalla necessità di non farsi cogliere impreparati davanti al verificarsi di eventuali scenari emergenziali. L’obiettivo è quello di disporre di protocolli ad hoc e di strategie elaborate ex ante per assicurare misure e risposte concrete, adeguate e coordinate, necessarie per fronteggiare e contenere situazioni emergenziali di tipo epidemiologico. Concretamente ogni piano nazionale epidemico, grazie all’indispensabile processo di aggiornamento costante, deve quindi contribuire a:



– identificare, confermare e descrivere rapidamente casi di influenza causati da nuovi sottotipi virali, in modo da riconoscere tempestivamente l’inizio della pandemia;

– minimizzare il rischio di trasmissione e limitare la morbosità e la mortalità dovute alla pandemia;

– ridurre l’impatto della pandemia sui servizi sanitari e sociali ed assicurare il mantenimento dei servizi essenziali;

– assicurare un’adeguata formazione del personale coinvolto nella risposta alla pandemia;

– garantire informazioni aggiornate e tempestive per i decisori, gli operatori sanitari, i media ed il pubblico;

– monitorare l’efficienza degli interventi intrapresi.

In Italia il Piano pandemico nazionale venne elaborato nel 2002 per fronteggiare l’influenza aviaria da virus A/H5N, fu successivamente aggiornato nel 2005 e da allora però non venne ulteriormente rivisto. Dalla mancata revisione scaturisce l’accusa rivolta agli ultimi tre ministri.

Il rapporto tra politica e pubblica amministrazione, ruoli e responsabilità

L’ex ministro Speranza si è giustificato, dalle nuove e più circostanziate accuse, affermando che “La bussola l’abbiamo sempre avuta e ci portava a difendere innanzitutto la salute delle persone (…) ciò che ci mancava era il manuale di istruzione su come fronteggiare un virus sconosciuto”. E ha aggiunto: “Il piano era datato e non costruito specificamente su un coronavirus ma su un virus influenzale … e la sua attuazione è compito del direttore generale della Prevenzione del Ministero”.

In questo modo Speranza pone al centro della riflessione, e quindi delle rispettive responsabilità, il rapporto tra politica (il ministro) e competenza non solo organizzativa, ma anche tecnico-scientifica dei vertici (i direttori generali) della pubblica amministrazione. Non c’è dubbio che in questo caso l’aggiornamento non fu fatto, ma soprattutto non si tenne sufficientemente conto che ci si trovava davanti ad un virus totalmente nuovo, per cui il vecchio piano epidemico non corrispondeva più alle nuove caratteristiche dell’agente patogeno. Piano non aggiornato e virus del tutto sconosciuto: se sul mancato aggiornamento la responsabilità sembra chiara, ed è in carico all’alta dirigenza del ministero, soprattutto per quanto attiene alla prevenzione, la gestione del rischio collegato alla sua scarsa o mancata conoscenza è ben più difficile da attribuire. Anche perché richiede una capacità di risk management che definisce un’area di responsabilità condivisa tra politica, scienza e pubblica amministrazione.

Non si può confondere l’applicazione di protocolli modellati su fattori patogeni conosciuti o per lo meno conoscibili per analogia in tempi brevi e fattori patogeni non solo sconosciuti, ma anche oggettivamente difficili da conoscere senza osservarne l’evoluzione temporale. E il tempo è stato il grande alleato della pandemia nella sua fase iniziale: c’è stato bisogno di tempo per capire quali erano le conseguenze che via via emergevano e quindi predisporre le relative misure di sicurezza. È giusto chiedersi allora fin dove arriva la responsabilità del direttore generale della prevenzione e quanti altri sono i piani nazionali non aggiornati.

In conclusione

Recentemente la Conferenza Stato-Regioni ha approvato il Piano pandemico influenzale 2021-2023, che nella sua versione definitiva apporta correttivi e modifiche alle precedenti versioni. Preparazione e prontezza sono il fulcro del nuovo Piano, che su richiesta delle Regioni sfrutterà le risorse presenti nel Fondo sanitario nazionale senza dover attingere a nuove. Il piano, da aggiornare ogni tre anni, contempla le attività necessarie a ridurre il rischio delle malattie infettive e il loro impatto nel corso di una situazione di emergenza sanitaria pubblica, senza che rilevi l’entità dell’evento, sia esso locale o internazionale.

Ma appare evidente come essendo già nel 2023, quell’ultimo piano sia già “vecchio” e necessiti di aggiornamento…

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