Una delle caratteristiche della recente storia diplomatica delle relazioni sino-americane è il rapporto fra Biden e Xi Jinping. Non è un caso che nel momento più basso delle relazioni bilaterali sia toccato proprio a loro riallacciare il rapporto iniziato nel 2011, quando entrambi ricoprivano il ruolo di vicepresidente e avevano il compito di costruire una linea di comunicazione privilegiata fra le due potenze. Si racconta che nell’agosto del 2011 Xi, dando il benvenuto al suo corrispettivo americano, lo ringraziò per la visita nonostante fosse “molto impegnato con gli affari nazionali”. La risposta di Biden chiarì immediatamente l’importanza dell’incontro: “voi siete affari nazionali”.
Sei mesi dopo fu Xi fare visita a Biden, che in quell’occasione riservò al suo collega cinese l’onore di avere un lungo incontro con l’allora presidente Obama, una cosa inusuale per il protocollo diplomatico, ma che palesava l’importanza riservata all’ospite. L’America di allora usciva dalla crisi del 2008 e aveva bisogno di costruire un legame forte con l’economia che finanziava il suo debito pubblico. Una fase in cui l’obamiano Pivot to Asia aveva in Biden l’uomo di raccordo con Pechino.
Personalizzare le vicende della storia è spesso un errore grossolano, ma il fatto che dopo undici anni siano proprio Biden e Xi a rincontrarsi nell’atteso meeting di Bali in Indonesia, alla vigilia del G20, ha fatto sperare che il legame stabilito fra i due potesse essere la base per un riavvicinamento fra le due potenze, poiché, come ha fatto notare il diplomatico americano Daniel Russel – la cui dichiarazione è stata ripresa da Nikkei Asia – esso “è uno delle poche ragioni di speranza rimaste nelle relazioni Usa-Cina”.
Benché la maggior parte degli analisti non nutrissero grosse speranze per un incontro che non prevedeva una dichiarazione congiunta, esso può aver rappresentato l’inizio di una nuova fase in cui Usa e Cina non rinunciano alla competizione per la leadership globale, ma tracciano dei limiti da non valicare.
A riguardo la metafora, usata per l’occasione da tanti analisti e diplomatici, del guardrail è alquanto esplicativa. I due Paesi rimangono saldi sulle proprie posizioni, ma non intendono chiudere le “le linee di comunicazione” che proprio Biden e Xi avevano aperto undici anni fa. Biden in particolare ha addolcito la postura americana nei confronti della Cina che con il viaggio di Nancy Pelosi a Taiwan aveva raggiunto il punto più alto di tensione. In particolare l’aver mostrato la volontà di non aver rinunciato alla “One Cina Policy”, una dichiarazione probabilmente dettata da ragioni diplomatiche, sicuramente è risultata cosa gradita a Pechino.
Ma i punti più significativi del meeting indonesiano sono quelli che riguardano l’intenzione di rigettare la logica della Guerra fredda e l’intesa di scongiurare il rischio di una escalation nucleare. Parliamo, cioè, del tentativo condiviso di porre dei limiti alla dinamica della competizione fra potenze che la guerra in Ucraina aveva messo in discussione. In particolare la decisione di Putin di mettere sul tavolo l’opzione nucleare ha segnato un punto di non ritorno che ha portato Xi a prendere le distanze del suo alleato russo. Il fatto che proprio nell’occasione del meeting di Bali i diplomatici cinesi abbiano tenuto a ribadire che non erano stati informati dell’invasione russa dell’Ucraina ha rappresentato per certi versi un excusatio non petita.
Abbiamo più volte provato a sostenere che la guerra in Ucraina è da intendersi come il corollario della competizione sino-americana, la quale sta riconfigurando in senso multipolare il sistema delle relazioni internazionali. Se assumiamo questa prospettiva d’analisi l’incontro fra Biden e Xi può essere inteso come la prima tappa di un percorso che porterà alla fine del conflitto in atto o per lo meno a una qualche forma di pace. Qualora questa eventualità dovesse realizzarsi avremo una dimostrazione indiretta della validità di quanto sostenuto.
Ad ogni modo, l’incertezza di questa fase lascia poco spazio all’ottimismo e vale la pena ricordare cosa ha seguito l’incontro in teleconferenza fra Biden e Putin di fine 2021 – ormai rimosso dalla memoria collettiva e che fu accolto favorevolmente da tanti analisti – ed è ragionevole pensare che piuttosto di aprire una nuova fase i due leader in realtà abbiano semplicemente posticipato i limiti temporali del redde rationem per Taiwan. Al momento, la priorità tattica è trovare il modo con cui gestire gli esiti del conflitto in Ucraina e non mancheranno i test con cui saggiare la qualità del rapporto sino-americano. A riguardo basti pensare alla Corea del Nord, che proprio in situazioni del genere non perde occasione per riguadagnare i riflettori, e al fatto che l’incontro di Bali non esclude la possibilità che ad avere motivo di attrito con la Cina siano altre potenze regionali, Giappone su tutti.
Proprio pochi giorni fa il Capo di Stato Maggiore americano, il generale Mark Milley, aveva evocato pubblicamente il rischio di un ritorno al 1914, inteso come il caso emblematico di una competizione fra nazioni fuori controllo che aveva portato a una guerra mondiale. Una preoccupazione che se può aver creato qualche imbarazzo alla diplomazia americana, è evidentemente condivisa dalla controparte cinese, la quale ha impresso una ulteriore accelerazione al processo di allontanamento da Putin.
Nel prossimo futuro vedremmo se il guardrail che Xi ha imposto alla competizione fra le due superpotenze – che non prevede la rinuncia a Taiwan – sarà ancora accettato dall’amministrazione Usa, ma al momento sembra essersi aperto uno spiraglio per la pace in Ucraina, anche a costo di costringere Putin a una capitolazione.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI