Non si può dire che l’incontro tra la Confindustria e le confederazioni sindacali abbia suscitato un particolare interesse. Si ha notizia di un tweet del Presidente Carlo Bonomi lieve come ramoscello di ulivo presentato in vista del match, a cui partecipa per la prima volta: “Incontriamo con fiducia i sindacati”. Serve convergere su “nuovi ammortizzatori, politiche attive del lavoro, ruolo Agenzie per il lavoro, contratti come da intese 2018 – ha proseguito Bonomi – criteri seri di rappresentanza, trattamento economico minimo, salario di produttività, più formazione e welfare”. Gli ha risposto un altro neofita, Pierpaolo Bombardieri, neo Segretario Generale della Uil: “Abbiamo una piattaforma unitaria e il rinnovo dei contratti è al primo posto”.
Non c’è dubbio che Bonomi abbia voluto rassicurare i partner sindacali che nei giorni scorsi temevano persino che la Confindustria avesse in mento di dare disdetta al Patto per la Fabbrica, sottoscritto dall’ex presidente Vincenzo Boccia. Questa preoccupazione rimaneva nonostante una dichiarazione del vicepresidente di viale dell’Astronomia con delega alle relazioni industriali. Aveva infatti dichiarato Maurizio Stirpe: “Spero che il 7 settembre si possa sgomberare il campo dalle polemiche strumentali e dalle rivendicazioni ideologiche e si possa, finalmente, ripartire con un dialogo franco e costruttivo su temi concreti. Confindustria non mai pensato di bloccare i rinnovi dei contratti, né, tantomeno, ha intenzione di smantellare il contratto nazionale. Al contrario. Vogliamo dargli più forza, applicando correttamente le regole che abbiamo condiviso nel Patto per la Fabbrica. Occorre, però mettere al centro, almeno delle relazioni sindacali, la produttività e la crescita”.
Il problema, pertanto, rimane quello che le parti sociali si portano appresso da decenni e che rimbalza di protocollo in protocollo: fermi restando due livelli di contrattazione (nazionale di categoria e decentrata in azienda o nel territorio) dove deve essere erogata la quota più rilevante della retribuzione? Per gli imprenditori lo scambio deve avvenire a livello d’azienda ed essere funzionale a un incremento della produttività e della qualità del lavoro, riservando alla contrattazione nazionale la salvaguardia del potere d’acquisto dei salari e degli stipendi. In fondo era questo il punto d’arrivo dello storico Protocollo del 1993, che rappresentò un tentativo di razionalizzare la contrattazione collettiva dopo il disordine del ventennio precedente. “La contrattazione aziendale – stabiliva il Protocollo – riguarda materie e istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del Ccnl. Le erogazioni del livello di contrattazione aziendale sono strettamente correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi, concordati tra le parti, avendo come obiettivo incrementi di produttività, di qualità e altri elementi di competitività di cui le imprese dispongano, compresi i margini di produttività, che potrà essere impegnata per accordo tra le parti, eccedente quella eventualmente già utilizzata per riconoscere gli aumenti retributivi a livello di Ccnl, nonché ai risultati legati all’andamento economico dell’impresa”.
Su questa traccia le relazioni industriali furono stabilizzate e i rinnovi contrattuali divennero un fatto fisiologico, al riparo dalle decine, spesso centinaia, di ore di sciopero degli “anni ruggenti”. Il fatto è che l’inflazione (l’ultimo conflitto in materia, con tanto di accordo separato senza la Cgil nel 2009, riguardò l’adozione dell’Ipca, per escludere la cosiddetta inflazione importata dai prodotti petroliferi), un tempo feroce distruttore del potere d’acquisto, è praticamente un ricordo del passato con un tasso molto modesto per assicurare dei rinnovi contrattuali minimamente convenienti. Così i sindacati hanno cambiato linea dando ragione alla Cgil che non ha mai voluto rinunciare al ruolo del contratto nazionale anche come autorità salariale.
La contrattazione di prossimità, ancorché valorizzata dai Governi sul piano fiscale, non ha mai avuto la capacità di assicurare la medesima copertura del contratto nazionale. A complicare le cose è arrivata la proposta del salario minimo legale, un argomento finito in quarantena durante il lockdown, ma che non tarderà a tornare all’ordine del giorno anche se convince i sindacati proprio perché potrebbe scalzare quell’applicazione “per inerzia” (anche da parte delle aziende non associate) dei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative.
In una lettera che Carlo Bonomi ha inviato a tutte le strutture aderenti è contenuto un brano che ha insospettito i sindacati: “Confindustria i contratti li vuole sottoscrivere e rinnovare – ha scritto il neo Presidente – Solo che li vogliamo “rivoluzionari“, rispetto al vecchio scambio di inizio Novecento tra salari e orari, e non perché siamo rivoluzionari noi – aggettivo che proprio non ci si addice –– ma perché nel frattempo è il lavoro e sono le tecnologie, i mercati e i prodotti, le modalità per produrli e distribuirli, ad essersi rivoluzionati, tutti e infinite volte rispetto a decenni fa”.
Sarà interessante assistere a come evolverà questa nuova stagione, sperando che non si scambi la solidità di una rivoluzione con la fiammata di una rivolta.