La versione ufficiale che si cerca di accreditare è che Mario Draghi sia un amabile pensionato richiamato per qualche mese in servizio da Ursula von der Leyen e ora impegnato in un distensivo pellegrinaggio di cortesia da casa Berlusconi a Palazzo Chigi. Lui, l’ex presidente della Bce che ha salvato l’euro con il suo “whatever it takes”, l’ex presidente del Consiglio che ha salvato l’Italia dai decreti notturni di Giuseppe Conte (ma che l’ha fatta vaccinare con la paura), era stato convocato dalla presidente della Commissione Ue per redigere un rapporto sulla competitività in Europa. Draghi l’ha presentato la settimana scorsa alla Commissione, sollevando soprattutto critiche dalla Germania e da chiunque abbia un occhio attento a non esagerare con i debiti: secondo l’ex premier, i 27 Paesi comunitari dovrebbero fare 800 miliardi di euro di debito comune “per colmare il ritardo dell’Ue” (e l’altro giorno al Parlamento di Strasburgo ha avvertito che “chi si oppone al debito comune è contro la Ue”). Ma per giornali e tv italiani il Rapporto Draghi sarebbe l’ultima spiaggia per salvare l’Europa.



Dopodiché è partito il gran tour degli innocui incontri all’insegna del galateo e della buona creanza istituzionale. Prima una telefonata con la premier Giorgia Meloni, poi un pranzo con Marina Berlusconi e l’ottantanovenne Gianni Letta, e infine il tè di ieri pomeriggio a Palazzo Chigi durato oltre un’ora. La figlia del Cav si è premurata di scrivere una piccata lettera a Repubblica in cui inserisce quello con Draghi nel novero degli “incontri che fanno parte del mio ruolo e del mio lavoro”, e non appartiene certo ad “assurde riunioni carbonare che nasconderebbero trame politiche da fantascienza”.



Da parte sua, la Meloni ha diffuso un comunicato in cui si parla di un “confronto approfondito sul Rapporto competitività, che contiene diversi importanti spunti”. Tra questi, la nota di Palazzo Chigi menziona “la necessità di un maggiore impulso all’innovazione, la questione demografica, l’approvvigionamento di materie prime critiche e il controllo delle catene del valore e, più in generale, la necessità che l’Europa preveda strumenti adatti a realizzare le sue ambiziose strategie – dal rafforzamento dell’industria della difesa fino alle doppie transizioni – senza escludere aprioristicamente nulla, compresa la possibilità di un nuovo debito comune. Priorità condivise che rispecchiano anche il lavoro portato avanti dal governo in Italia e nelle istituzioni europee”. L’incontro, insomma, è normale amministrazione, visto che l’esecutivo Meloni era già ampiamente sul pezzo ben prima che la von der Leyen scomodasse Draghi.



La questione, in realtà, è un po’ più complessa. Da un lato gli eredi Berlusconi riflettono da tempo sul possibile distacco dalla destra del loro partito (FI) per dare vita a un nuovo centro europeista, come dimostrano i segnali lanciati a Elly Schlein e al Pd in materia di diritti. E Draghi potrebbe essere per tutti il garante dell’operazione. Dall’altro, è in corso un tentativo dei vertici Ue di “normalizzare” la situazione italiana attirando la Meloni e l’eurogruppo dei conservatori e riformisti (Ecr) verso le posizioni dei popolari: l’attribuzione di una vicepresidenza esecutiva della Commissione Ue a Raffaele Fitto va in questa direzione. Impegna cioè il governo italiano a una forte solidarietà con Bruxelles.

La manovra “centrista”, auspicata dalle stanze di Bruxelles – ma anche da quelle di Cologno Monzese –, è destinata però a restare inefficace finché nel governo siederà Matteo Salvini. Più che un ambasciatore di bon ton, Draghi appare dunque come l’uomo che potrebbe mettere la Meloni davanti a un bivio: o con l’Europa, o con il suo ministro sotto processo. Lo si vedrà quando la Commissione comincerà ad attuare il programma enunciato dalla von der Leyen, basato su difesa (cioè più soldi in armi), sicurezza e sulle principali “raccomandazioni” di Draghi.

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