Tutti escono dal balcone di Buckingham Palace alla fine della cerimonia di incoronazione di un re inglese dopo 70 anni. Carlo però resta per ultimo, si guarda indietro e saluta ancora una volta. Sarebbe facile pensare: non vedeva l’ora e non gli pare vero.

Avendo visto bene il suo volto durante tutta la lunga mattinata e avendo notato la sua espressione grave e qualche volta smarrita, credo che il saluto dal balcone sia stato invece liberatorio e di ringraziamento a tutto quel popolo che, nonostante le sue incapacità e le sue fragilità, gli ha mostrato affetto e vicinanza.



Forse Carlo dubitava, e non si aspettava il tripudio, perché il vero “spare”, la vera ruota di scorta della Royal Family è sempre stato lui. Mai davvero amato, sbeffeggiato e fin da piccolo bullizzato, oppresso, non compreso. E l’entusiasmo della gente del Regno Unito e non solo forse l’ha stupito, come ha stupito Camilla, che continuava a guardarlo sul balcone e così in chiesa quasi per sentirsi approvata, Lei che è una borghese, una common, che è sempre stata rifiutata e additata a sola causa della fine di un matrimonio sbagliato.



Sarebbe facile anche dire che questa cerimonia è anacronistica e rasenta la farsa. Sarebbe facile ridere degli ermellini, le pietre preziose, la soggezione dei prelati della chiesa anglicana, lo sfarzo, i mantelli bardati di Lord incanutiti e sconosciuti, i paffuti coristi bambini e la parata così buffa dei colbacchi da orso col soggolo sopra il mento, così scomodi da portare e così fuori tempo, metereologico e cronologico. E sospirare alla ridda di segnali al politically correct, dai gospel alla sfilata di autorità di diverse religioni, agli inviti stampati su carta riciclata…

Eppure la gente batteva le mani, gridava esultante e cantava a squarciagola “God save the king”. Abbiamo bisogno delle favole, sempre, anche se non riguardano questa volta principi giovani e principesse belle e fascinose. Abbiamo bisogno forse per riconoscerci in un’identità e in una tradizione, quelle che troppo sbrigativamente gettiamo senza renderci conto di ciò che viene perduto. Carlo non può essere un capo religioso, non è nemmeno, date le sue prerogative e le regole di ingaggio, un capo politico. Ha molti meno poteri di Macron e tanti meno anche di Mattarella. Ma la sua storia e quella corona sul capo rappresenta la storia di Inghilterra, la volontà di una continuità anche se proiettata al futuro e il segno di un’unità nazionale che, pure con le divisioni forti tra i partiti e tra le diverse anime di quel Paese, ha retto nel tempo e ancora pare reggere.



E poiché è quella la terra da cui abbiamo preso tanto quanto e democrazia e diritti e cultura e libertà e coraggio nei momenti più duri della storia, da un lato sorridiamo ai suoi retaggi antichi e per noi incomprensibili, e dall’altra li invidiamo un po’, perché ci piacerebbe avere un volto in cui riconoscerci nonostante i suoi difetti, cui far festa, a cui dare il nostro sostegno per rappresentare l’unità dello Stato.

Ci vuole una bandiera, un inno, ci vogliono i riti. Carlo e Camilla, con la loro goffaggine triste, comunque li rappresentano, li incarnano. Ecco perché nessun suddito inglese o scozzese o gallese o irlandese, che non sia repubblicano, avrebbe preferito un passaggio di consegne all’erede più giovane, più bello, vivace, brillante, perbene, e alla sua perfetta consorte. Ecco perché il loro cuore non batte più se non per la disapprovazione e la pena per il figlio ribelle e malmostoso. Ecco perché sopportano e anzi apprezzano anche l’impalata Camilla.

A noi pare incredibile, ma loro tengono al re, al suo ruolo. Ci credeva Churchill, ci credevano i Beatles, Sean Connery e i Beckam e Katie Perry. Prima o poi arriveranno a George, e sarà come oggi, cambieranno solo le facce sulle tazze da tè e i cappellini.

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