L’annunciata fase 2 con la ripresa delle attività economiche e la relativa ripresa di una parte delle relazioni sociali si sta rivelando una semplice riverniciatura di quanto già in essere. I due mesi di lockdown dovevano servire a contenere l’espansione della pandemia e permettere di preparare la fase di ripresa che, come si sapeva fin dall’inizio della quarantena, sarebbe stata una fase di convivenza con il virus.



Convivenza che sarebbe stata resa possibile perché nel frattempo si sarebbero predisposti due essenziali strumenti: la capacità di tracciamento per spegnere sul nascere eventuali nuovi focolai e la rinnovata capacità di cura per il recupero di potenzialità di intervento dei servizi medici territoriali e ospedalieri. Non avendo preparato nulla di tutto ciò, il piano di ripresa presentato è ancora all’insegna del “principio di precauzione”: in assenza di capacità decisionale la politica delega ai tecnici e questi si trincerano dietro all’indeterminatezza delle decisioni sostenute da previsioni apocalittiche. Incapaci di indicare scelte e obiettivi si balbetta solo il ” non si può, lo dico per il tuo bene”. Come se fossimo tutti adolescenti in crisi ormonale e dovessimo essere tenuti a bada da genitori bacchettoni.



Procedere pertanto a una valutazione dei riflessi economici che avranno le decisioni relative alle riaperture è molto difficile. Appare però chiaro che non vi è coscienza della realtà economica e lavorativa che caratterizza la nostra società. Va sicuramente bene fare ripartire manifatture e cantieri edili. L’impatto sul Pil di questi settori li rende fondamentali. Nonostante i disastri della finanziarizzazione, quando c’è bisogno di fare ripartire l’economia è al lavoro “hard”, quello che produce case e cose, che bisogna assicurare investimenti e domanda per innescare una ripresa generalizzata. La rimessa in moto delle filiere connesse a questi settori avrà un effetto di contenimento dei risultati economici depressivi innescati dal virus.



Questi sono però i settori che già ora hanno avuto un arresto minore rispetto ad altri e potranno quindi recuperare più velocemente quote di mercato. Ma, come detto più volte e da più parti, l’impatto di questa crisi non è generalizzato e simmetrico, ma fortemente asimmetrico, colpisce sia la domanda che l’offerta e seleziona drasticamente fra i diversi settori economici.

Dal punto di vista dell’impatto occupazionale vanno perciò valutate con attenzione le caratteristiche che avrà la nuova disoccupazione perché seguirà la differenziazione che la crisi impone alla struttura produttiva. Già in questi giorni appare in forte crescita la domanda di lavoro per tutte le professioni della filiera sanitaria così come sono richiesti lavoratori quelle della logistica e della grande distribuzione. Ma all’opposto la filiera dei servizi turistici risulta completamente azzerata.

Pesa inoltre la dimensione di impresa. Nel complesso le aziende che hanno interrotto l’attività sono il 47,3% del totale, ma se quelle con almeno 250 addetti risultano essere solo il 33,8%, fra le imprese senza addetti si arriva a ben il 66,7%. È quindi evidente che con la riapertura della produzione ci troveremo con una disoccupazione che avrà origine soprattutto da alcune filiere economiche e da quelle attività che per dimensione e tipologia dipendevano dalla continuità produttiva e dei ricavi.

La scelta di utilizzare la cassa integrazione nelle sue diverse declinazioni per salvaguardare i rapporti di lavoro in essere è sicuramente utile. Almeno per i primi mesi manterrà in vita una possibile ripresa lavorativa, ma non basterà certo a garantire il lavoro per quei settori dove la crisi ha azzerato la produzione attuale e permetterà una piena ripresa in tempi superiori ai 12 mesi. D’altro canto le misure previste in questa fase sembrano pensate per una struttura produttiva ormai superata. Con il passaggio alla società di servizi, la grande impresa rappresenta solo parte della struttura produttiva e, soprattutto, non è più la principale fonte di occupazione.

Come ampiamente illustrato nel testo “La nuova geografia del lavoro”, la competizione economica fra i territori è data dal favorire l’insediamento di uno o più poli legati alle produzioni innovative (ITC, manifattura 4.0, sistema moda, ecc.), cosa che induce a una crescita economica di tutto il territorio per la crescita della domanda di servizi (ristorazione e accoglienza ma anche marketing, legali ed economici, pubblicità, palestre e tempo libero) che deriva dalle attività di maggiore impatto.

In termini occupazionali, l’effetto maggiore deriva dal settore dei servizi. A parità di fatturato si può ritenere che i settori più produttivi generino un’occupazione del 50% rispetto a quella creata nel settore dei servizi generati dalla loro domanda. I problemi occupazionali dei prossimi mesi verranno perciò soprattutto dai lavoratori attualmente impiegati in questi settori che hanno subito una sospensione totale dei ricavi durante la fase di lockdown e si prevede una difficile se non impossibile ripresa delle attività. Saranno dei “nuovi” disoccupati.

Verranno da lavoro autonomo e lavoro dipendente. Non avranno bisogno di essere convinti per tornare a lavorare. Saranno invece facilmente portati a reazioni rabbiose se non troveranno sostegno nelle politiche attive che gli permetta, oltre al reddito, di reinserirsi al lavoro e comunque avere un’attività che li renda utili. Perché il lavoro non è solo reddito, ma relazione con gli altri e con la realtà. E questo loro lo sanno bene.

Già ora con le false ripartenze, del tipo che si può andare in sede ma non si possono incontrare vecchi e nuovi clienti, sta emergendo un diffuso sentimento di tensione sociale motivata anche dall’emergere del fatto che le nuove diseguaglianze non coinvolgono solo la fascia del lavoro precario.

Proviamo a ragionare sui grandi numeri. Possiamo ritenere che in Italia gli occupati siano per un terzo nella Pubblica amministrazione e per un terzo in imprese di media e grande dimensione. Questi due terzi rappresentano i lavoratori garantiti nel reddito, nel posto di lavoro e con un sistema solido di ammortizzatori sociali. L’ultimo terzo vede assieme artigiani, commercianti, professionisti (normalmente parte del ceto medio) e lavoratori delle micro e piccole imprese e occupati del settore informale (cultura, spettacoli, ecc.) e marginale. Tutti lavoratori che non hanno ammortizzatori, né tutela del posto o del reddito.

Si è provato in questo frangente ad adottare interventi di parziale sostegno al reddito per queste fasce di lavoratori, ma appare completamente assente la programmazione di interventi straordinari e innovativi di politiche dedicate a tenere aperte queste attività e assicurare che possano mantenere anche i propri addetti. Si devono prevedere veri e propri incubatori che sostengano la volontà di commercianti e artigiani di proseguire le loro attività o ripartire con nuove iniziative.

Serve una nuova strumentazione che permetta il coinvolgimento dei lavoratori associandoli nei nuovi piani di ripresa, rivedendo la normativa del workers buyout e quella delle cooperative di lavoro, per aprire a nuove possibilità di salvaguardare i rapporti di lavoro preesistenti.

Allo stesso tempo, per chi è destinato a rimanere fuori dal lavoro precedente per sempre o per un lungo periodo, deve assicurato il sostegno al reddito ma anche un impiego, pur temporaneo, che dia continuità alle relazioni sociali contribuendo a formarsi nuove capacità professionali certificabili.

Non affrontare questi temi ora ci porta ad arrivare alla fase della ripartenza senza programmare strumenti di intervento, ma, soprattutto, indicherebbe che chi doveva programmare il futuro ha sprecato i sacrifici che gli italiani, disciplinatamente, stanno ancora facendo.

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