I primi a reagire contro le misure annunciate dal premier Giuseppe Conte per la fase 2 sono stati i commercianti. Molto critico Carlo Sangalli, sempiterno presidente di Confcommercio: “La fase 2 rinvia la riapertura degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e di tante attività del turismo e dei servizi. Ogni giorno di chiusura in più produce danni gravissimi e mette a rischio imprese e lavoro – ha detto -; in queste condizioni diventa vitale il sostegno finanziario alle aziende con indennizzi a fondo perduto che per adesso non sono ancora stati decisi. Bisogna invece agire subito e in sicurezza per evitare il collasso economico di migliaia di imprese”. C’era da aspettarselo. I vincoli che continuano a permanere sulle attività economiche, la graduale riapertura delle stesse dopo ben 50 giorni di fermo (eccezion fatte per le deroghe previste) sollecitano la logica del “primum vivere”: la richiesta di “indennizzi a fondo perduto”. Si tratta di misure che è urgente assumere, ma la strada maestra è un’altra: accompagnare – con tutti i mezzi e gli strumenti necessari – le aziende a ripartire.



Sappiamo benissimo che i contagi potrebbero ripartire; per questi motivi vanno predisposti tutti i possibili presidi di difesa (non dimentichiamo che non è ancora stato risolto in modo esaustivo il problema delle mascherine, neppure per sapere con certezza se sono utili e se è obbligatorio indossarle). Ma è ormai indispensabile un cambiamento di mentalità che ci porti a una valutazione più razionale del flagello che ci ha colpito. Non è consentito rifugiarsi all’interno di un’enorme Arca di Noè in attesa che tutto sia finito, perché quel momento non arriverà mai.



Non possiamo dunque lasciare che l’economia vada in rovina, che si accartocci su se stessa; ne sarebbero colpiti non solo i diritti e la qualità di vita delle persone, ma sarebbero a rischio anche le istituzioni democratiche e la stabilità sociale. Non possiamo fingere di non vedere che ci siamo lasciati imporre, con una singolare convinzione, un regime di privazione delle libertà e dei diritti fondamentali che non ha precedenti nella storia dell’umanità, perché mai a un figlio è stato vietato di incontrare il proprio padre, che vive lontano da lui a una distanza superiore a 200 metri. Ci sono nei Dpcm (già di per sé atti di cui è dubbia la legittimità nel disporre in materia) preclusioni assurde, divieti irragionevoli, raccomandazioni bizzarre, a cui però la grande maggioranza dei cittadini si attiene con una disciplina quasi maniacale e una palese ostilità nei confronti degli “evasori”.



Tutto ciò premesso, anche se gli istituti di ricerca raccomandano prudenza perché non siamo ancora in possesso di dati reali, sono state compiute e presentate diverse analisi della situazione dal punto di vista produttivo e occupazionale. Va da sé che vi è un legame molto stretto, dipendente dalla durata delle chiusure, tra il numero delle aziende in quarantena e quello degli occupati a rischio. Intanto – avverte l’Inapp in un Policy Brief di aprile – già l’occupazione era in frenata e il ricorso alla Cassa integrazione guadagni in forte crescita prima della emergenza sanitaria da Covid-19.

Il numero delle persone occupate nel secondo semestre del 2019 aveva rallentato fortemente (+0,2%, da +0,5% nei precedenti sei mesi), per la riduzione della componente relativa agli autonomi e la frenata dell’occupazione a tempo indeterminato, a fronte della graduale espansione della componente a termine. Nei mesi iniziali dell’anno in corso, prima che l’emergenza sanitaria dilagasse, gli occupati erano diminuiti (-0,4% nel bimestre gennaio-febbraio rispetto al quarto trimestre del 2019), per effetto della caduta sia del numero dei dipendenti permanenti (-0,3%, per la prima volta dal terzo trimestre del 2018), sia degli autonomi. Ma è attendibile che il blocco di una quota significativa della base produttiva, disposto fino al 3 maggio (poi riaperta parzialmente), si rifletta in un’eccezionale riduzione delle ore lavorate nei mesi primaverili.

Secondo stime dell’Istat, i provvedimenti di sospensione o riduzione dell’attività produttiva riguarderebbero il 51,3% delle imprese e il 42,9% degli addetti. Le imprese attuerebbero forme di riduzione dell’orario di lavoro sia attraverso lo smaltimento di ferie e di congedi parentali, sia, in maggior misura, mediante il ricorso alla Cassa integrazione guadagni (Cig), estesa dal decreto legge “Cura Italia” a tutte le imprese, indipendentemente dal settore produttivo e dal numero di addetti. Secondo le informazioni diffuse dall’Inps, le richieste per la Cig con causale “Covid-19” pervenute fino al 10 aprile – sostiene l’Inapp – riguardano circa 2,9 milioni di lavoratori, mentre le istanze relative all’assegno ordinario coinvolgono circa 1,7 milioni di beneficiari; nessuna informazione è disponibile sulle domande pervenute per la Cig in deroga con causale Covid-19 che in prima battuta sono raccolte dalle Regioni e poi inviate all’Inps. Si stima, in base alla struttura dell’occupazione nei comparti interessati dalla sospensione o riduzione dell’attività produttiva, che il numero complessivo di ore autorizzate possa attestarsi su livelli ampiamente superiori rispetto ai valori massimi storicamente osservati su base mensile dalla crisi finanziaria del 2009.

Come allora, l’utilizzo della Cig consente alle imprese di preservare la base occupazionale e quindi il suo potenziale, in modo da disporre di un capitale sociale per la ripresa dell’attività quando i vincoli alla produzione saranno rimossi. Di particolare interesse l’analisi dell’Inapp secondo il carattere dell’occupazione. I dipendenti a tempo determinato coinvolti dalle misure di contenimento del contagio sono poco meno di 600 mila unità, occupati in prevalenza nel settore terziario (419 mila). I lavoratori a tempo determinato occupati in imprese che operano in settori per i quali è stata disposta la sospensione risultano più di altri a rischio di perdita del posto di lavoro. Inoltre, circa 225 mila dipendenti a termine interessati dalla restrizione sono occupati nel settore alberghiero e della ristorazione, dove il 92,9% delle imprese risulta sospeso e dove generalmente i rapporti di lavoro a termine hanno una durata estremamente ridotta.

È verosimile che, in presenza del fermo della attività, una quota non indifferente di contratti a termine non sia rinnovata. Ecco perché tra le misure con carattere d’urgenza dovrebbe essere inserita una deroga alla norma del c.d. decreto dignità che ha ridefinito i criteri della condizionalità per la proroga dei contratti a termine trascorsi i primi 12 mesi. È un vincolo che le imprese non possono permettersi in una fase come l’attuale; non è possibile pretendere che – nella travagliata prospettiva a cui va incontro l’economia -. le aziende si debbano porre il problema di trasformare in rapporto a tempo indeterminato un contratto a termine venuto a scadenza.

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