Una settimana piena di insidie per il Governo e per l’Italia si è chiusa meno peggio del previsto con un giudizio benevolo di Standard & Poor’s che ha confermato il rating del debito italiano: BBB non è affatto buono, due scalette più giù e si cade nella palude della cosiddetta spazzatura. È vero che la Banca centrale europea ha deciso di comprare anche i titoli di stato considerati junk lanciando una ciambella di salvataggio proprio all’Italia, ma lo spread è in agguato, è arrivato oltre il 2% suonando un campanello d’allarme. La Bce fa ormai pienamente da prestatore di ultima istanza, come ha sottolineato anche l’agenzia di rating, non acquista i titoli pubblici sul mercato primario a differenza dalla Banca d’Inghilterra e dalla Federal Reserve americana, tuttavia quei mille e cento miliardi stanziati di qui a fine anno per il nuovo Quantitative easing, sono solo una parte, forse un terzo, dell’intervento complessivo per non far mancare alle banche la liquidità e salvare i Paesi a rischio default.



La seconda buona notizia è che il Governo ha deciso di disinnescare una volta per tutte le clausole di salvaguardia; anche in questo caso si può dire che non avevano più senso visto che l’Ue ha sospeso il Patto di stabilità consentendo deficit e debiti giganteschi, impossibili da accettare anche durante la crisi del 2008-2010. Tuttavia, la scelta compiuta dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri toglie di mezzo una pericolosa quanto dannosa spada di Damocle.



Il terzo bicchiere mezzo pieno viene da Bruxelles: la Germania ha aperto la porta a un fondo per la ripresa alimentato da titoli europei. Tutto è ancora da definire nei dettagli dove, si sa, s’annidano le arti più diaboliche, ma cade un altro tabù. Tutto ciò consente al Governo italiano, è questo è il quarto punto positivo, di mettere in campo altre ricorse consistenti. Gualtieri parla di 150 miliardi di euro, 55 miliardi dei quali come deficit aggiuntivo, il resto per ricapitalizzare la Cassa depositi e prestiti (50 miliardi), aumentare la liquidità per le imprese (40 miliardi) far pagare parte dei debiti della Pubblica amministrazione (una dozzina di miliardi).



Fin qui le buone notizie. Quelle cattive, partendo dalla fine della nostra rosea sequenza, sono ancora parecchie. Innanzitutto i tempi. Il fondo europeo nascerà se tutto va bene a giugno e non si sa quante risorse potrà mettere a disposizione (si parla tra i 1.000 e i 1.500 miliardi di euro). Forse potrebbero arrivare entro l’estate 40 miliardi di prestito ponte dal futuro fondo. Nel frattempo c’è il famigerato Mes (da qui l’Italia potrebbe prendere 36 miliardi di euro) sul quale anche il M5S ha cambiato idea scontando fratture interne del resto inevitabili. Importante è la svolta di Silvio Berlusconi che su questo punto si è staccato da Matteo Salvini, da Giorgia Meloni e dall’ala sovranista dei Cinque stelle. Segno che qualcosa si sta muovendo in un centro-destra che finora era stato a trazione salviniana. Vedremo gli sviluppi nelle prossime settimane.

Ma torniamo ai tempi. Quando prenderanno corpo gli annunci di Gualtieri? Il nuovo decreto vedrà la luce prima che vengano rialzate le saracinesche dell’Italia? Intanto si registrano pesanti ritardi nell’applicazione delle misure precedenti, a cominciare dalla cassa integrazione e dai prestiti garantiti con il decreto liquidità. La colpa è della burocrazia, di una Pubblica amministrazione rugginosa, ma un problema riguarda anche le banche. Al sistema creditizio è stato affidato il ruolo di grande ospedale della crisi che mette alla prova la sua efficienza e porta in luce anche le sue debolezze strutturali, la prima delle quali è l’esposizione al debito pubblico italiano. I titoli in portafoglio sono pari a 384 miliardi di euro, a essi si aggiungono prestiti di vario tipo che portano il tutto a 600 miliardi. Intanto il valore di mercato delle banche italiane è sceso seguendo il crollo delle borse. Per allentare il cappio bisognerebbe aggredire lo stock di debito pubblico, farlo durante la recessione è impossibile, ma è assolutamente possibile preparare un piano per il dopo come ha proposto Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo.

Il fatto è che programmi, progetti o addirittura piani per il dopo non fanno parte del dibattito pubblico, sono lontani dall’orizzonte di un Governo che già fatica ad affrontare l’emergenza e da partiti che hanno in mente regolamenti dei conti tra loro e al loro interno. C’è un fattore P come politica che s’aggiunge all’altro fattore P come pandemia. Il primo peggiora le conseguenze del secondo, quelle socio-economiche e quelle sanitarie. Siamo a una settimana dalla riapertura, in piena cacofonia, con l’aggravante che a quella dei politici si è aggiunta quella degli scienziati e degli esperti arrivati ormai a 450 in 15 task force.

Il tempo, dunque, poi i finanziamenti pubblici, a essi s’aggiunge un’altra grande incertezza: le risorse a disposizione dei privati. Innanzitutto le tasse. Se davvero come minaccia l’agenzia delle entrate a giugno cadrà la mannaia fiscale su contribuenti che nei primi sei mesi non hanno visto il becco d’un quattrino, la recessione s’avviterà su se stessa. È probabile che si arrivi a nuovi rinvii o a dilazionare la riscossione, ma forse sarebbe meglio fare una scelta chiara e di medio periodo. Il secondo aspetto, altrettanto angosciante, riguarda la perdita di valore e la distruzione di capitale. Quanto valgono le imprese che riaprono? Che senso ha calcolare i loro bilanci a prezzi di mercato? Quante hanno già un buco patrimoniale e una carenza di capitale?

C’è chi propone trasferimenti pubblici a fondo perduto per le aziende medio-piccole, chi di trasformare i debiti in azioni per quelle più grandi, ma chi apre i battenti deve sapere che cosa accadrà in un ragionevole futuro. Da quel che si sa il prossimo decreto non affronta questi aspetti. Dovremo aspettarne un altro oppure il Governo alza bandiera bianca?

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