L’export agroalimentare italiano ha finalmente superato, nel 2021, la soglia dei 50 miliardi di euro di fatturato, mettendo a segno un record storico. A oscurare però, almeno in parte, questo eccellente risultato è il pensiero di quello che il nostro export potrebbe essere, se spogliato di alcuni pesanti fardelli. Primo fra tutti, il ben noto (ma mai esattamente quantificato) Italian Sounding. Vale a dire, quei prodotti che utilizzano denominazioni, riferimenti geografici, immagini e marchi che evocano l’Italia su etichette e confezioni di prodotti agroalimentari tipici della tradizione italiana, ma non prodotti in Italia.



Ora, uno studio scientifico realizzato da The European House – Ambrosetti in collaborazione con Assocamerestero e presentato nel corso del sesto Forum Food & Beverage, fa luce su quella che è la reale portata di questo fenomeno nel mondo. Suggerendo che, senza Italian Sounding, l’export agroalimentare italiano potrebbe con facilità valere più di 100 miliardi di euro, praticamente il doppio del valore attuale.



Il perimetro d’azione della survey

La ricerca condotta da The European House – Ambrosetti punta a ricostruire il fenomeno ‘dal basso’, ovvero dagli scaf fali della Grande distribuzione internazionale. Nel marzo 2022 l’indagine ha coinvolto 250 retailer in 10 Paesi su un paniere di 11 prodotti tipici del Made in Italy agroalimentare e per i quali il fenomeno dell’Italian Sounding è storicamente più marcato. I 10 Paesi – che insieme rappresentano il 58% dell’export f&b nazionale, per un valore di circa 29 miliardi di euro – sono Stati Uniti, Canada, Brasile, Regno Unito, Germania, Francia, Paesi Bassi, Cina, Giappone e Australia. Gli 11 prodotti sono invece parmigiano, gorgonzola, prosciutto, salame, pasta di grano duro, pizza surgelata, olio-extra vergine di oliva, aceto balsamico, ragù, pesto e prosecco. Le esportazioni di questi prodotti nei 10 Paesi considerati vale il 13,2% dell’export agroalimentare italiano nel mondo, pari a 6,6 miliardi di euro. “Il campione”, spiega il rapporto, “raccoglie una quota di mercato media del 46% del comparto retail alimentare per ciascun Paese, permettendo quindi di ottenere elevata rappresentatività statistica delle dinamiche dei Paesi in oggetto”.



I coefficienti di analisi

La survey ha adottato una metodologia basata su due coefficienti: quello di italianità allo scaffale, che  rappresenta la quota di prodotti tipici della produzione  nazionale che provengono effettivamente dall’Italia; e il coefficiente di ‘sconto’ sulle scelte dei consumatori, che permette di scontare la quota di consumatori che ricercano consapevolmente prodotti Italian Sounding basandosi, fondamentalmente, sulla leva del prezzo.

“Considerata l’estrema differenza tra i prezzi dei prodotti nazionali esportati e quella dei prodotti italiani imitati – si legge – può accadere che consapevolmente il consumatore scelga di acquistare il prodotto Italian Sounding per una sua maggiore accessibilità, senza che quest’ultimo abbia un reale desiderio di comprare Made in Italy. In questo caso, il consumatore non è effettivamente ingannato, quindi può risultare un target di indirizzo e di priorità secondario rispetto a quei consumatori che invece richiedono esplicitamente prodotti Made in Italy”.

Giappone, Brasile e Germania i più ‘ingannati’

Dall’analisi emerge che circa 4 prodotti tipici italiani su 10, negli scaffali dei retailer intervistati, provengono realmente dall’Italia. Le più basse presenze si trovano nel ragù e nel prosecco in Brasile (con solo il 25,8% e il 26,3% di prodotti che provengono dall’Italia), il ragù e il pesto in Germania (sono made in Italy rispettivamente il 26,2% e il 26,5%) e il prosciutto in Giappone (26,5%). Ed è proprio nel Paese del Sol Levante che l’Italian Sounding risulta più marcato, con una quota di prodotti ‘finti italiani’ pari al 70,9%. Segue a breve distanza il Brasile con il 70,5% e la Germania con il 67,9%.

“In Giappone e in Brasile i limiti della proiezione della filiera italiana possono ricondursi alla elevata distanza dai Paesi, sia geografica sia in termini di consapevolezza della popolazione sull’eccellenza, la qualità e la salubrità del Made in Italy, uniti – soprattutto nel caso brasiliano – a barriere normative e doganali”, spiega il rapporto. “Sorprende maggiormente il risultato tedesco. Sebbene la Germania sia la prima destinazione al mondo delle esportazioni agroalimentari italiane, rimane un mercato non ancora saturo e ammette una forte presenza di prodotti imitati. Uno dei possibili temi di influenza sul suo posizionamento  si riconduce a una forte presenza del canale discount, tradizionalmente un formato distributivo distante dal cliente target dell’export made in Italy”.

Ragù, parmigiano e aceto balsamico i più imitati

Guardando al cluster dei prodotti, l’Italian Sounding risulta più marcato nel ragù, con una quota non provenienti dall’Italia pari al 61,4%, seguito dal parmigiano (61,0%) e dall’aceto balsamico (60,5%). Sommando il valore complessivo dell’Italian sounding per tutti i prodotti analizzati, è emerso che i ‘fake’ generano un fatturato di 10,4 miliardi di euro, il 58% in più rispetto a quanto generato dagli stessi 11 prodotti ‘veramente’ italiani (pari a 6,6 miliardi). Guardando ai singoli prodotti in questi 10 Paesi, l’Italian Sounding vale quasi 2 miliardi di euro per la pasta di grano duro, l’olio Evo oltre 1,4 miliardi, il parmigiano 1,3 miliardi e il prosecco 1,2 miliardi di euro. “Applicando il moltiplicatore di ciascuna area geografica al relativo valore di export agroalimentare italiano, risulta che il fenomeno dell’Italian Sounding nel mondo vale 79,2 miliardi di euro”, sottolinea il rapporto. “Cumulando questo risultato all’attuale valore di export nazionale di 50,1 miliardi di euro, il potenziale di export agroalimentare della filiera italiana raggiungerebbe i 130 miliardi di euro se si eliminasse il fenomeno dell’Italian Sounding”.

Più che la certificazione, conta lo scontrino

Uno dei principali fattori di diffusione dell’Ita lian Sounding è la sua competitività in termini di prezzo. The European House – Ambrosetti ha quindi preso in considerazione il coefficiente di ‘sconto’, che tiene conto dell’effetto prezzo sulle scelte dei consumatori. Ne è emerso che più di 3 consumatori su 10 basano le proprie scelte di acquisto di prodotti tipici italiani sul prezzo ridotto. Questo avviene soprattutto nel Regno Unito e, in particolare, con la pizza surgelata, dove il 69,2% degli acquisti sono basati sul prezzo, con il prosecco e con il par migiano (50%). La leva del prezzo è molto forte anche negli acquisti di parmigiano nei Paesi Bassi (55,6%) e in quelli di aceto balsamico e pasta di grano duro negli Stati Uniti (48,2%).

Applicando la combinazione dei coefficienti 1 e 2 per gli 11 prodotti nei 10 Paesi, il modello restituisce la quantificazione del valore dell’Italian Sounding ‘depurato’ dall’effetto prezzo, pari a 6,8 miliardi di euro nel cluster di riferimento, il 3% in più del relativo valore di export agroalimentare italiano. Di conseguenza, depurato dall’effetto prezzo, il fenomeno di Italian Sounding nel mondo è quantificabile in 51,6 miliardi di euro. “Tale affinazione metodologica consente di stabilire il potenziale valore di Italian Sounding più ‘recupera bile’ nel medio periodo, andando a lavorare sulla consapevolezza dei consumatori che sono realmente ingannati dalle indicazioni fallaci sui prodotti”, evidenzia il rapporto. “Se si eliminasse questo fenomeno, il potenziale di export agroalimentare italiano supererebbe i 100 miliardi di euro, più che raddoppiando l’attuale valore”.