La vicenda di Indi Gregory, deceduta il 13 novembre, ha riaperto il dibattito su tematiche inerenti il fine vita, la proporzionalità delle cure, la palliazione, la relazione medico paziente, il senso del dolore innocente, la speranza nella cura e il rapporto tra autodeterminazione e comunità civile. Temi complessi, affrontati nei media in modo spesso emotivo e non di rado strumentalizzati da interessi ideologici e politici, talvolta con palesi inesattezze fino alla manipolazione delle informazioni, preoccupate di aspetti che nulla hanno a che vedere con la verità dei fatti.
Vicende come queste non sono infrequenti e neppure nuove. Molti nascituri sono segnati da malattie gravi che consentono talvolta una breve vita extrauterina segnata irreversibilmente dalla progressione alla morte in tempi rapidi, senza alcuna possibilità di terapia attiva in grado di modificare la storia naturale di malattia.
Ciò che avviene in molte condizioni è una pianificazione condivisa delle cure tra medici e famigliari, per evitare sia l’ostinazione irragionevole (accanimento terapeutico) che la desistenza terapeutica, cioè l’abbandono del malato senza una presa in cura capace di alleviare le sofferenze e accompagnare la persona malata e i suoi famigliari nel cammino faticoso verso la sua fine e il suo Fine.
In questa vicenda, non c’è stata questa composizione e le richieste inaccolte dei genitori hanno portato in tribunale le loro istanze mettendole in mano ai giudici.
Non giudico la ragionevolezza dei desideri dei genitori per la loro piccola, nati da un dolore profondo e dalla ricerca di una speranza, desiderata spesso contro ogni evidenza, e che necessitano di tempo e condizioni adeguate per potersi purificare e rappacificare.
Non voglio entrare nel merito delle decisioni dei giudici di non autorizzare il (problematico) viaggio verso altre strutture sanitarie per una seconda opinione.
Come professionista mi sembra invece doveroso richiamare alcuni principi dell’agire medico per noi stessi, offrendoli anche a tutti come punto di riflessione. Il tema che emerge nella vicenda della piccola Indi si ripete in molti altri casi; unici e irripetibili, più o meno drammatici, ma oramai quotidiani in ogni contesto di cura che abbia a che fare con l’inguaribilità; ogni volta vengono chieste decisioni non facili da affrontare ma ineluttabili.
La medicina attuale ci ha abituati a pensare che ogni limite rifletta solo l’imperfezione dei nostri strumenti, in attesa di essere vinto dal progresso scientifico. L’affermazione continua di nuovi successi clinico-terapeutici corrobora del resto questa visione positiva agli occhi dei sanitari e dei pazienti. Tuttavia, pur lavorando per una scienza medica sempre più efficace, va riconosciuto che il limite è strutturale alla condizione umana e che nessuna scienza potrà eliminarlo. Anzi paradossalmente il progresso ne accentua le implicazioni rispetto a quando era disarmata, come anche questa vicenda rende evidente.
Prendersi cura di una persona è un atto integrale che utilizza molti strumenti per renderlo efficace, ma non può limitarsi all’atto clinico e tecnologico, e anzi deve riconoscerne l’inappropriatezza, quando viene perseguito con irragionevole ostinazione.
I pronunciamenti in tema di etica da parte di società scientifiche e della recente giurisprudenza sono in linea anche con quanto il Magistero della Chiesa ha affermato da molti anni e continua a ribadire, richiamando all’uso ragionevole delle risorse scientifiche, che vanno impiegate con il criterio della proporzionalità delle cure.
Ogni trattamento sproporzionato sia per ostinazione che per desistenza, è eticamente inaccettabile perché è innanzitutto professionalmente sbagliato.
La proporzionalità delle cure non può però essere normata in modo rigido e astratto.
A volte i segni della realtà sono palesi, ma molte zone grigie rimangono e richiedono discrezionalità nel giudizio. Così solo la concretezza del singolo caso definisce questa proporzione: l’equilibrio cioè fra indicazioni ragionevoli – frutto di una valutazione tecnica del medico – e onerosità e gravosità della condizione imposta dai trattamenti stessi – che è individuale e appartiene al vissuto del paziente.
Per ciò la relazione è fondamentale, per evitare pretese o imposizioni, poiché libertà e autonomia si giocano nella loro verità solo in un contesto relazionale.<
Interrompere (o non iniziare) trattamenti vitali è non solo lecito ma anche doveroso quando escono da questa proporzione, come è sembrato essere in questo caso, almeno dalle informazioni disponibili.
L’alternativa però non è mai il nulla, ma una rimodulazione del percorso di cura, in questo caso palliativo, che mette in campo ancora tutta l’efficacia del sapere medico scientifico per ridurre la sofferenza, e utilizza l’arte terapeutica per accompagnare nella cura amorosa la consegna al Destino di cui la vita è fatta e a cui appartiene anche la dimensione della morte.
Solo uno sguardo al bene integrale della persona e del contesto familiare e amicale in cui è inserita, può restituire la cura alla dignità che le compete e sottrarla alla conflittualità, espressione di incomunicabilità e negazione ostile del senso della vita stessa.
Per questo il gesto di cura si dilata dall’ambito del paziente a quello famigliare, e anche alla rete della comunità in cui si inserisce, non solo destinatari, ma anche attori di un percorso di cura.
La solidarietà e la reale compagnia umana a chi soffre è cura, ed è compito e responsabilità anche di chi non è coinvolto in dinamiche sanitarie.
In questo senso anche chi usa mezzi di comunicazione e contribuisce al clima culturale ha una responsabilità indiretta, ma significativa nel ricostruire una sanità che sappia accogliere il bisogno di salute e di salvezza dell’uomo malato, oggi più in crisi che mai.
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