Indi Gregory è una bambina inglese di otto mesi affetta da una rara malattia mitocondriale a cui l’Alta Corte londinese vuole sospendere i trattamenti vitali. La patologia che la affligge, infatti, non ha cure e la prosecuzione delle terapie, secondo i medici britannici, non avrebbe altro effetto che procurare sofferenze inutili alla neonata. I genitori di Indi hanno quindi lanciato un appello affinché venisse consentito loro di trasportare la figlia in Italia. Il governo italiano, rispondendo a quest’appello, ha conferito alla bambina la cittadinanza italiana in modo che potesse venire accolta all’Ospedale Bambin Gesù di Roma. Ma la giustizia di Sua Maestà non intende farla partire, giudicando sproporzionata la misura rispetto al beneficio che la piccola otterrebbe.
La battaglia legale si infiamma e con essa, ancora una volta, quella ideologica e politica. Da chi – di fatto – propugna un accanimento senza remore sul corpo della piccola a chi, invece, giudica i genitori tacciandoli di egoismo e di insensibilità per la loro pervicacia nel non voler “lasciare andare” la figlia. È chiaro che nessuno può sapere che cosa provano un padre e una madre in quelle condizioni, così come è chiaro il fatto che – per il bene di chi si ama – a volte si diventa testardi e irrazionali.
Eppure, la questione è più profonda e riguarda tre domande, estremamente laiche, che tutti dovrebbero porsi.
La prima, certamente irritante per alcuni, è semplice: chi decide il peso di un istante di vita? Perché accompagnare Indi alla morte con le cure palliative, donandole ancora preziosi momenti di esistenza, sarebbe più crudele che staccarla subito dai supporti che la tengono in vita? Chi decide che smettere di curare è meglio che vivere fino in fondo, certamente accompagnando il dolore?
La prima risposta che è bene dare è che oggi noi ci troviamo di fronte ad un sistema il cui unico giudizio di valore sta nella bilancia tra costi/benefici. Se i costi sono superiori ai benefici, allora non conviene restare in vita. L’unico legame tra l’uomo e la comunità è quindi il denaro che l’uomo riesce a dare e il denaro che lo Stato deve spendere per tenerlo in vita. E se non fosse così? E se il tempo del dolore e dell’addio fossero un beneficio inatteso il cui unico costo consisterebbe nella nostra umiltà?
C’è poi una seconda domanda molto laica che è importante porsi: che rapporto c’è tra genitori e comunità? Fino a che punto un genitore, che giustamente affida una figlia alla comunità affinché se ne prenda cura, può accettare le decisioni di quella stessa comunità quando esse coincidono con una sentenza di morte? Perché dopo la Rivoluzione francese tutti sono liberi di autodeterminarsi e, invece, i più piccoli non possono far sentire la propria voce attraverso quella di mamma e papà? Perché il dolore di quei genitori non può essere considerato come uno dei fattori decisivi in forza del quale decidere il tipo di cura e trattamento da dare e riservare alla bambina? Che pretesa è quella di amare senza fare i conti con chi ha generato quel figlio?
Infine, una terza domanda, anche in questo caso estremamente laica: di chi è il nostro corpo? A chi deve essere affidato nell’ora della morte? Da sempre la comunità restituisce il corpo alla famiglia: lo fa Achille con Priamo, lo fanno tutti gli ospedali al momento del decesso, lo potrebbe fare anche la corte londinese che – invece di rimarcare il proprio diritto a decidere per il bene maggiore della piccola Indi – potrebbe compiere l’unico atto pienamente umano: restituire ai genitori il corpo della piccola perché possa compiere il proprio cammino tra le mura di casa.
Occorreranno molti amici a quei genitori: un dolore così grande a volte unisce, a volte divide. Occorreranno molti amici che li aiutino a compiere il gesto supremo: quello di lasciare andare la propria piccola. Non per ordine di un tribunale umano, ma per riconsegnare al Mistero il volto e il dolore di chi – morendo – chiederà a loro il miracolo più grande: quello di accettare di rinascere di nuovo.
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