Partiamo dalle conclusioni: 21 indicatori sull’andamento dell’epidemia da Covid-19 sono troppi per decidere quando e come intervenire per limitare gli effetti del virus. Un numero così grande di indicatori ha sulle decisioni pubbliche lo stesso effetto che una cortina fumogena ha per disimpegnarsi in una battaglia: l’una a l’altra confondono chi sta di fronte.



Ventuno sono troppi per due ordini di motivi: uno è che rappresentano sia aspetti essenziali del fenomeno, sia una pletora di aspetti del tutto secondari nella descrizione dell’andamento dei contagi e delle loro conseguenze; l’altro è che non sono concordi nel rappresentare l’andamento e ciò dipende sia da motivi strutturali, sia da motivi esclusivamente tecnici e pertanto irrilevanti.



Gli indicatori riguardano tre dimensioni fondamentali della pandemia da Covid-19. Una riguarda il processo di rilevazione delle informazioni attinenti al contagio; una seconda l’entità del contagio vero e proprio e l’impatto sulle strutture sanitarie; la terza le risorse del sistema sanitario impegnate nella rilevazione dei dati. Nel seguito, dimostreremo che tre indicatori sarebbero sufficienti a dare l’idea delle cose e a comunicare ai tecnici e agli scienziati, e così pure alla popolazione, come sta incidendo l’epidemia e assumere le rispettive responsabilità.

Ci si potrebbe lamentare anche dell’imperizia linguistica nella descrizione degli indicatori, che possiamo attribuire alla fretta e alla logica accumulatoria con cui gli indicatori sono stati proposti e precisati nel tempo. Una revisione linguistica e più precise definizioni renderebbero gli indicatori intellegibili a un vasto pubblico.



Ma non perdiamoci su aspetti formali e parliamo della sostanza degli indicatori. È opportuno premettere che si tratta di indicatori calcolati su base settimanale e per regione (per provincia nel caso della regione Trentino-Alto Adige). La settimana di riferimento parte da un giovedì e finisce con il mercoledì della settimana successiva. La procedura di calcolo è corretta, poiché non è soggetta né alle fluttuazioni giornaliere, né alla casualità del numero di tamponi e di altri aspetti estemporanei del sistema di rilevazione dei dati. Tuttavia, si capisce immediatamente che i dati resi disponibili in un dato giorno sono già vecchi, in media, di una settimana, ma il ritardo dei primi dati della settimana può arrivare a 14 giorni (i 7 della settimana di riferimento e altrettanti da attendere prima della diffusione di un nuovo indicatore).

Analizziamo ora gli indicatori secondo le finalità. Quelli relativi al processo di raccolta dei dati sul contagio sarebbero 4, ma i numeri prodotti dal ministero della Salute sono 5, perché di un indicatore si riporta sia il dato dell’ultima settimana che quello della settimana precedente. Tutti e quattro gli indicatori riguardano la percentuale di schede in cui è presente la data di inizio dei sintomi o il comune di domicilio. Si tratta di informazioni che hanno il solo significato di tenere sotto osservazione il sistema di rilevazione dei dati delle regioni, ma che riflettono, al massimo, la precisione con cui le regioni italiane compilano le schede informative sul contagio. In definitiva, se tutti questi dati mancassero, si saprebbe del virus tanto quanto si sa allo stato odierno delle cose.

Gli indicatori sull’entità del contagio sono, invece, il cuore del problema. Gli indicatori sono 7, ma il ministero ne presenta 15, di cui uno riguarda i dati della settimana prima e 3 sono considerazioni a latere del ministero sui dati. Le considerazioni a latere sono duplicazioni informative che riproducono in modo impressionistico, forse a vantaggio di chi non ha dimestichezza con i numeri, informazioni già presenti negli 11 indicatori quantitativi. Per esempio, un indicatore consiste in una semplice freccia rivolta verso l’alto o verso il basso per indicare che il dato è, rispettivamente, cresciuto o calato rispetto alla settimana precedente. Di questi dati laterali non vale la pena parlare, perché non rientrano nel novero dei 21.

Restano 11 numeri, di cui tre sono fondamentali per descrivere i contagi. Uno è l’indice Rt che stima la contagiosità da virus nella regione; dovendo essere calcolato con una formula che richiede un complesso metodo di calcolo, è opportuno che sia calcolato per tutti dal ministero per non rischiare la babele statistica. Il secondo e il terzo indicatore sono i tassi di occupazione dei posti letto nelle terapie intensive e nei reparti di area medica della regione.

Per la precisione, c’è anche un altro numero che può sembrare importante, ma è solo coreografico, ed è il numero assoluto di casi di infezione da Covid-19 nella settimana. È coreografico perché sembra il numero vero di casi, tuttavia è solo il numero di casi contati nei tamponi effettuati e, quindi, è viziato dall’intensità estemporanea dei tamponi, nonché da duplicazioni e da altri accidenti nella conta e, comunque sia, non informa sull’andamento del contagio più di quanto faccia l’indice Rt.

Due indicatori sono considerati cruciali dal ministero: la previsione a 30 giorni avanti della probabilità che i posti in terapia intensiva siano occupati per oltre il 30% e che quelli di area medica siano occupati per oltre il 40%. Sono chiaramente basati su previsioni soggettive, a lunga scadenza dal punto di vista operativo, e con un criterio di computo non trasparente. Questi due indicatori rendono inutile ogni analisi oggettiva e sono il vero innesco della cortina fumogena.

Un altro indicatore che lascia il tempo che trova è il numero di focolai di trasmissione del virus. Questo indicatore sarebbe d’interesse a fini d’intervento se lasciasse trasparire da cosa nasce il contagio: per esempio, se nasce nelle scuole, nei posti di lavoro, nei negozi, nelle manifestazioni pubbliche, in autobus, in palestra, in chiesa, in casa eccetera, cose su cui si sa poco o niente. Ovvero, per meglio dire, si sa che il contagio avviene per contatto, ma non si sa quanto siano rilevanti gli innumerevoli veicoli di contagio. Così come non si sa quanti siano i contagiati ogni settimana, né si sa quanti siano i contagiabili, ossia le persone che hanno sviluppato anticorpi difensivi durante questa e la precedente epidemia da Covid (dal 2000 al 2004). Questo richiama alla mente l’assenza assoluta di statistiche ufficiali in questo contesto informativo, ma anche questo è un problema non centrale in questo nostro discorso.

Il terzo lotto di indicatori riguarda le risorse che il sistema sanitario dedica alla rilevazione delle schede sui contagi. Gli indicatori sono, infatti, il numero di tamponi effettuati (per mese), le risorse umane dedicate alla rilevazione (contact tracing) e al monitoraggio dell’epidemia e il “numero di casi confermati di infezione nella regione per cui sia stata effettuata una regolare indagine epidemiologica con ricerca dei contatti stretti/totale di nuovi casi di infezione confermati”. Abbiamo virgolettato l’indicatore perché, quand’anche servisse a qualcosa che a noi sfugge, non è chiaro perché, in ogni regione, sia uguale al 100%, o a ridosso del 100%.

Poi ci sono altri due indicatori la cui utilità lasciamo intuire al lettore: si tratta del numero di settimane tra la data d’inizio dei sintomi e la data di diagnosi e il numero di settimane tra l’inizio dei sintomi e la data di isolamento del contagiato, che sono ambedue stime “a occhio” tratte dai pochi casi in cui sono calcolabili. Sono, infatti, numeri interi (1, 2, 3 o 4), chissà come determinati, che il ministero guadagnerebbe in immagine oscurandoli.

In definitiva, i ragionamenti sugli indicatori portano a concludere che, pur rilevando tutti i dati possibili e immaginabili, il ministero dovrebbe orientare i comunicatori a focalizzare la propria l’attenzione e quella del pubblico sui tre indicatori oggettivi che fanno chiarezza sull’impatto del virus, ossia l’indice Rt, la misura cardinale del contagio, e i due indicatori sulla capacità del sistema sanitario di fare fronte ai ricoveri ospedalieri e a quelli nelle terapie intensive, rapportandoli ai posti letto disponibili. Se questo avverrà, scienziati, comunicatori e cittadini saranno parimenti consapevoli dei problemi che l’epidemia sta provocando e non dovrebbero esserci mugugni per le limitazioni imposte.

Per concludere, sarebbe qualificante che il ministero si facesse parte attiva anche per determinare quanti italiani si contagiano ogni giorno e quanta parte della popolazione è (o dovrebbe essere, chissà se un giorno riusciremo a saperlo) esente da contagio in quanto già contagiata, portando così a miglior fine l’indagine che Istat e Croce Rossa hanno realizzato con dubbi risultati qualche mese fa. Il tempo per farlo c’è, abbiamo ancora diversi mesi davanti prima di toglierci di torno il virus.

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