“L’indice Rt medio calcolato sui casi sintomatici nell’ultimo rilevamento è a 0,99, in crescita rispetto alla settimana precedente e con un limite superiore che va oltre 1”, ecco perché “non ci sono oggi le condizioni per allentare le misure”. Lo ha detto Roberto Speranza, ministro della Salute, intervenendo al Senato, in vista del nuovo Dpcm che sarà in vigore dal 6 marzo al 6 aprile, cioè fino a dopo Pasqua, e che dovrebbe contenere i provvedimenti di contrasto alla diffusione del coronavirus. “In questo ultimo miglio – ha aggiunto Speranza – non possiamo abbassare la guardia”. Dunque, è ancora l’Rt a determinare le scelte anti-pandemia, anche se qualche giorno fa le Regioni sono tornate a chiedere una sua rivisitazione: “Sulla revisione del Rt e dei relativi parametri, la Conferenza si era già espressa, anche in termini propositivi e, pertanto, è necessario riprendere quella discussione ed approfondirla per verificare, anche dall’esperienza maturata, quali possono essere le soluzioni migliori dal punto di vista tecnico-scientifico.
È evidente che se la campagna vaccinale accelera, l’Rt perde progressivamente di rilevanza”. Ne abbiamo parlato con l’epidemiologo Cesare Cislaghi, che da tempo ha lanciato la proposta di affiancare all’Rt l’indice RDt (Indice di replicazione diagnostica).
L’indice Rt è vicinissimo a quota 1 e ciò basta per non allentare le misure di contenimento del virus. Ma le Regioni sono tornate alla carica chiedendo una sua rivisitazione. Perché è un indice così criticato?
L’Rt dal punto di vista teorico è un indice solido, molto interessante e importante.
Perché?
L’indice R0 indica la capacità di un contagiato di infettare altre persone. Per il morbillo, ad esempio, l’indice è addirittura 18: cioè un bambino infetto è potenzialmente in grado di contagiare 18 altre persone. Il calcolo viene fatto al di fuori di qualsiasi misura di contenimento, in situazione – diciamo così – di laboratorio.
E quando si introducono le misure di contenimento?
L’R0 diventa appunto Rt ed è importante perché, nella teoria, mostra quanto le misure di restrizione sono capaci di ridurre la capacità di infettare.
Dove sta allora il problema?
Ecco il punto: come si fa a sapere la data esatta dell’infezione? Impossibile stabilirlo. Allora si ricorre alla data di inizio sintomi, ipotizzando che tra il momento del contagio e l’insorgenza dei primi sintomi più o meno ci sia un intervallo costante. Il problema ha tre facce. La prima: con il coronavirus quasi tre quarti dei positivi sono asintomatici, quindi non vengono utilizzati nel calcolo dell’Rt. La seconda: le informazioni sull’inizio sintomi sono carenti. La terza: probabilmente il ricordo dei primi sintomi, specie nei soggetti più anziani e fragili, non è preciso. Come dico in modo scherzoso: è una variabile “sé-dicente”. Ecco perché l’Iss usa l’Rt solo sui sintomatici e sulla base dei record individuali che arrivano dalle Regioni, ma con un certo ritardo. Ora che le informazioni arrivano, vengono raccolte ed elaborate, la fotografia che emerge dall’Rt è sempre riferita alla situazione di circa due settimane prima.
Non sarebbe l’ora di mandarlo in pensione?
No, è giusto tenere l’Rt, ma è necessario poter disporre di un indice più aggiornato, utilizzando sempre i dati ufficiali pubblicati dalla Protezione civile, sul numero di tamponi positivi diagnostici, cioè i nuovi casi testati, che hanno al massimo un paio di giorni di ritardo.
Lei infatti propone un nuovo algoritmo, l’indice RDt, cioè l’Indice di replicazione diagnostica, che definisce “di semplice calcolo, riproducibile da chiunque con semplicità e creato adottando i dati pubblicati ufficialmente”. Di cosa si tratta?
L’ho proposto fin dall’inizio della pandemia, perché qualcosa di simile viene utilizzato anche all’estero, per esempio in Germania. L’indice RDt è semplicemente un indice di replicazione dei casi, perché misura il rapporto tra il numero dei casi della settimana e quelli della settimana precedente. In altre parole, è un indice di sviluppo di tutti i tamponi diagnostici positivi, calcolato esattamente nel giorno centrale di ogni settimana.
Perché dovrebbe essere più utile e funzionale?
Rispetto all’indice Rt è più aggiornato di una decina di giorni.
Si possono utilizzare entrambi?
Certo. Infatti la mia proposta, avallata anche dall’Associazione italiana di epidemiologia, non è quella di cancellare l’Rt, bensì di affiancargli anche l’RDt.
In che modo?
Se i due indici sono coincidenti, siamo in una botte di ferro su come sta andando effettivamente l’epidemia.
E se divergono?
Diventano oggetto di riflessione.
Ultimamente come si stanno muovendo Rt e RDt?
Quando tutte le regioni sono state inserite in zona gialla, l’indice Rt scendeva, mentre l’RDt saliva, tant’è vero che avevo messo in discussione tale scelta. Poi, quando le misure sono state inasprite, l’indice RDt mostrava che i contagi non stavano più risalendo. Insomma, il gap di 10 giorni era molto evidente.
E adesso?
L’RDt sta salendo, anche se non tantissimo. Oggi a livello nazionale siamo a 1,10, mentre l’indice Rt è fissato a 0,99, un livello che l’RDt aveva toccato il 17 febbraio.
Qual è la forchetta tra le regioni?
Premesso che tutti i calcoli e i numeri, nazionali e regionali, dell’RDt si possono ritrovare sul sistema di elaborazione che si chiama Made (Monitoraggio e Analisi dei Dati dell’Epidemia), a cui si accede dall’home page dell’Associazione italiana di epidemiologia, gli ultimi dati aggiornati dicono che la regione con l’RDt più basso, 0,72, è stranamente la Provincia di Bolzano.
Perché dice “stranamente”?
Bolzano ha un’incidenza altissima, per fortuna in decelerazione. Per usare una metafora, è come una Ferrari che va a 200 all’ora e sta “frenando” a 150: ma se incrocia una pattuglia, prende comunque la multa perché è oltre i limiti consentiti.
E la regione con l’RDt più alto?
È la Toscana, a quota 1,36, una regione che sta dando segnali di forte accelerazione e che va monitorata con grande attenzione.
Che cosa pensa dei 21 indicatori con cui la Cabina di regia decide i colori delle regioni?
Mi lasciano molti dubbi, perché guardano più al passato che al futuro. Alcuni indicatori riguardano più le capacità assistenziali delle regioni che non i rischi futuri. Sono necessari, ma non così essenziali per definire il futuro.
Cosa occorrerebbe guardare allora?
Tre sono gli indicatori fondamentali: incidenza, RDt e tassi di ricovero in terapia intensiva e di letalità, che sono legati.
Lei calcola anche la cosiddetta Stima del Rischio Futuro a 14 giorni. A cosa serve?
Non è certo una sfera di cristallo, ma consente di prevedere quello che potrebbe succedere tra 15 giorni se le cose continuano ad andare come stanno procedendo nell’ultima settimana, ovviamente rebus sic stantibus, senza correzioni di rotta. La Stima del rischio più che misurare il trend, calcola la direzione dell’incidenza.
Ci spieghi meglio.
Come dicevo prima, l’incidenza è come la velocità con cui si muove un’auto e l’indice RDt è la sua accelerazione. Facendo un esempio: se vado a 140 kmh e scendo a 120, ho un RDt minore di 1, cioè pari al rapporto 120:140, quindi sto decelerando. Ma la velocità resta sostenuta. Al contrario, se vado a 20 kmh e accelero a 40, avrò un RDt pari a 2, ma procedo pur sempre a bassa velocità.
Incidenza e RDt che fotografia ci danno dell’epidemia?
Ci mostrano, appunto, la velocità e l’accelerazione o decelerazione dell’epidemia. L’RDt dà il valore di come si sta modificando l’incidenza.
Qual è dunque il pregio dell’RDt?
Può aiutare i decisori ad assumere scelte basate su dati più aggiornati e su ipotesi di scenario più precise.
Siamo in presenza della terza ondata della pandemia?
In Italia no: la risalita cui stiamo assistendo non sembra certo un’impennata. Però ci sono delle zone dove si è registrata un’accelerazione. Diciamo che a livello nazionale siamo ancora in una situazione di leggera crescita, non certo in qualcosa che possiamo chiamare terza ondata. Un indice 1,10 non è spaventoso, anche se merita attenzione.
Il ministro Speranza ha affermato: “Non ci sono le condizioni epidemiologiche per allentare le misure anti-Covid”. È davvero così?
Sì, perché in questo momento, anche se negli ultimi due giorni qualche segnale c’è stato, non siamo in zona di accelerazione importante, però siamo a livelli elevati di incidenza.
Secondo lei, meglio un nuovo lockdown generale o possono bastare lockdown severi ma mirati?
Difficile rispondere. Dipende dai singoli momenti. Per esempio, a inizio ottobre ero favorevole a un lockdown generale forte, perché eravamo sui minimi e ciò avrebbe impedito la crescita cui poi abbiamo assistito. E proprio per colpa dell’indice Rt, aver deciso poi le zone gialle per tutti è stato un errore.
E questo che momento è?
Adesso, con RDt a 1,10, sarei favorevole a un arancione diffuso con alcune zone rosse. Sardegna e Sicilia più vicine al giallo.
La Lombardia?
Se si mette in rosso la Lombardia, si mette in rosso tutta l’Italia. Meglio lockdown limitati nei comuni più a rischio.
La carenza di vaccini può rappresentare un grosso problema?
In rapporto alle varianti di sicuro. Le varianti sono errori di replicazione, se si bloccano, il virus avrebbe meno probabilità di variare e di far emergere varianti cattive, più contagiose o più pericolose. Delle varianti buone nessuno si accorge.
Il premier britannico Boris Johnson ha elaborato un piano per uscire dall’emergenza in quattro fasi, allentando via via le maglie delle restrizioni. È un’idea praticabile avere una road map?
Tutti noi speriamo in piani precisi, ma alle road map ci credo poco. Di certo all’Italia manca una capacità di visione di lungo periodo, tendiamo a lavorare su ipotesi a breve termine. Un po’ più di programmazione non guasterebbe.
Da epidemiologo come giudica questo Sars-CoV-2?
Una brutta bestia, è come il virus della Spagnola.
(Marco Biscella)