Come usciremo da questa perversa situazione che, da almeno due anni, ha colpito l’Europa, direttamente o indirettamente, tranciando le catene che la collegavano al resto del mondo? È la fine dell’economia globale? Qualcuno forse sogna l’autarchia?

Togliamoci ogni dubbio: il concatenamento mondiale dell’economia non permette via di ritorno. Le catene di fornitura non hanno alternative facili, la loro riduzione (forse meglio dire il loro accorciamento), che parrebbe lodevole praticare, potrebbe voler dire che qualcuno, in passato, si è mosso senza un’accurata analisi, senza uno studio preciso anche se pandemia e invasione dell’Ucraina sono accadimenti che difficilmente potevano essere previsti.



D’altra parte, il nostro Paese, si sa, è caratterizzato da un’economia di trasformazione: costretta ad approvvigionarsi di materie prime acquistandole dai Paesi che ne dispongono in gran quantità, la nostra industria si è sempre distinta per il grande valore aggiunto che riusciva ad assicurare al valore finito, ma ciò non è stato sufficiente e alla lunga ha reso vulnerabile la nostra industria e difficile la capacità italiana di resistere e competere. Con il Covid, poi, che ha colpito tutto il mondo (ma non è mal comune mezzo gaudio), è apparsa evidente la nostra vulnerabilità in campo sanitario. Solo per recuperare le mascherine abbiamo dovuto “pietirle” in tutto il mondo.



Fortunatamente l’arrivo del Governo Draghi ha permesso la rapida organizzazione degli interventi necessari a contenere la pandemia e, successivamente, la reazione italiana al post-Covid è stata eccezionale. Nonostante la crisi energetica innescata dal conflitto tra Russia e Ucraina abbia avuto, e abbia tuttora, pesanti ripercussioni sull’economia del nostro Paese – che tempo addietro ha commesso l’errore di abdicare alla produzione di energia -,  la forza reattiva delle nostre imprese è stata strabiliante.

Se pensiamo alla macchina utensile, negli ultimi due anni l’Italia ha raggiunto un livello di consumo di nuovi sistemi di produzione pari a quelli tedesco. Prima della pandemia la Germania consumava il doppio dell’Italia. Tutto questo dimostra, da un lato, la resilienza del nostro sistema industriale che ha voluto investire nel bene basico per lo sviluppo dell’industria, e, dall’altro, la validità del piano Industria/Transizione 4.0 messo in atto dalle autorità di governo.



Tale combinato disposto ha permesso alle nostre imprese di mantenere, e spesso incrementare, la loro competitività a livello internazionale. Infatti, solo la possibilità dell’inserimento di nuovo hardware, vale a dire nuove macchine, ha permesso lo sfruttamento di tutto il nuovo software sviluppato con l’obiettivo di migliorare l’organizzazione aziendale grazie all’inserimento di elementi digitali capaci di assicurare interconnessione di macchinari e impianti.

Con la trasformazione digitale, ad esempio, le aziende sono oggi in grado di assicurare servizi di assistenza a distanza e manutenzione predittiva in qualunque parte del mondo ove si sia installata una propria macchina di produzione.

Questo a tutto vantaggio dell’attività delle aziende che, dopo le limitazioni allo spostamento di merci e persone imposte dalla pandemia, hanno cominciato a selezionare con attenzione gli interventi in presenza di tecnici e commerciali concorrendo anche a una migliore sostenibilità ambientale.

Ora bisogna continuare. Il raggiungimento degli obiettivi dettati dalle esigenze 4.0 non possono avere un limite: si sposteranno sempre in avanti. I beni strumentali debbono costantemente essere aggiornati per poter sfruttare appieno la potenzialità dei dati che permettono di ricevere, la rapidità di esecuzione degli interventi concorrendo a migliorare la capacità competitiva italiana in tutto il manifatturiero.

Solo macchine eccellenti possono produrre beni eccellenti. Tutto questo induce a pensare a una formazione continua, a una strutturalità di tutti i provvedimenti che permettono al pubblico di intervenire sussidiariamente sugli investimenti aziendali.

Riguardo alla formazione dei giovani è evidente che la parte fatta direttamente sul lavoro è essenziale e insostituibile con alcuna attività scolastica che non può andare aldilà della formazione di base. Ecco, allora, la necessità di limitare a figurativa la contribuzione dovuta dalle aziende per i prime tre anni di lavoro di giovani che entrano in azienda, successivamente andrà riconosciuto un credito di imposta pieno a tutte le aziende che attuano piani di formazione interna, ciò deve valere per i costi di formazione del personale e per le docenze.

Esiste poi il problema dell’esposizione dei prodotti a livello internazionale. Nulla di meglio che alzare i rimborsi alle aziende che espongono all’estero o a fiere internazionali che si svolgono in quartieri nazionali specialmente per quelle manifestazioni indicate e organizzate direttamente dai settori produttivi, nessuno può comprendere meglio delle stesse aziende le proprie necessità.

Non ho usato numeri nello stendere questi raffazzonati appunti perché voglio invitare tutti voi a iscrivervi e partecipare alla conferenza stampa che Ucimu organizzerà il 13/12 a Milano e in occasione della quale saranno presentati i nuovi dati di settore che sostengono queste considerazioni.Troverete tutto su www.ucimu.it .Vi aspetto!

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